Rifugiati Climatici: una questione che ormai non si può più rimandare

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Rifugiati Climatici: una questione che ormai non si può più rimandare

I cambiamenti climatici sono e saranno una delle principali cause di migrazione mondiale, con conseguenze più negative sulle popolazioni più povere e vulnerabili. Lo dimostrano due recenti importanti ricerche
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I cambiamenti climatici sono una delle principali cause di migrazione mondiale, con conseguenze più negative sulle popolazioni più povere e vulnerabili. Recentemente due importanti ricerche hanno dimostrato, esaminando dinamiche e dati a lungo termine, come le tempeste, le alluvioni, le ondate di caldo e la siccità abbiano conseguenze sempre più influenti sulle migrazioni. I cambiamenti climatici non causano direttamente questi fenomeni, ma ne accentuano la potenza distruttiva e l’estensione. I due studi, portati avanti separatamente dall Università di Otago in Nuova Zelanda e dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), formano la base da cui poter partire per iniziare a discutere e trovare al più presto risposte inclusive che tengano conto di questi fattori.

In un rapporto pubblicato il 27 settembre, i ricercatori del FMI hanno esaminato i legami tra eventi atmosferici estremi e migrazioni in più di 100 paesi in un intervallo di tempo di oltre tre decenni. Hanno scoperto che “un aumento della temperatura e una maggiore incidenza di disastri meteorologici aumentano le percentuali di emigrazione“. Petia Topalova, ricercatrice del FMI e autrice del report, descrive la migrazione come una “strategia di adattamento per famiglie colpite da shock climatici“, predicendo che “flussi migratori consistenti, oltre i confini nazionali, potrebbero sorgere a causa dell’aumento significativo del livello dei mari”.

Gli effetti dei cambiamenti climatici in questo campo sono già visibili: circa 1 milione di persone in Africa sono state costrette a lasciare le proprie case nel 2015; nella regione del Pacifico, la Banca Mondiale ha sollecitato Australia e Nuova Zelanda ad aprire le frontiere ai residenti dei piccoli stati insulari come Tuvalu e Kiribati; in Siria infine, dove le migrazioni interne scatenate da una siccità storica hanno contribuito alla guerra civile che ha poi portato a un’ulteriore disastrosa migrazione, questa volta verso stati limitrofi e infine verso l’Europa.

A Porto Rico la devastazione causata dall’uragano Maria può offrire un’ulteriore anteprima delle possibili conseguenze di migrazioni forzate verso paesi vicini. L’estensione capillare dei danni, combinata con la vasta popolazione dello stato e il diritto legale dei portoricani di migrare negli Stati Uniti, ha potato nuove imponenti sfide nella pianificazione di strategie di adattamento. Il governatore di Porto Rico Ricardo Rossello ha avvertito che “migliaia, se non milioni” di residenti potrebbero lasciare l’isola per la terraferma.

 “Questo creerebbe una tensione senza precedenti nei mercati immobiliare e del lavoro nelle città ospitanti, così come nel settore dei servizi pubblici localisostiene Jesse Keenan, esperto di adattamento climatico ricercatore all’Università di Harvard. Keenan utilizza l’esempio di New York, che ha la maggiore concentrazione di portoricani fuori dall’isola. I quartieri tradizionalmente portoricani della città, dove i nuovi arrivati potrebbero stabilirsi – East Harlem, Bushwick, Bronx –  hanno un tasso di alloggi disponibili già molto basso e costo della vita elevato, sostiene Keenan. “La città di New York deve stabilire urgentemente un piano per queste persone“. Se verranno costrette a stare da amici o parenti, la situazione potrebbe aggravarsi ulteriormente “andando a sovraffollare le unità abitative, accentuando di conseguenza i rischi di incendio e i crimini domestici.”

Al momento non esiste una definizione universalmente accettata per gli sfollati a causa delle conseguenze dei cambiamenti climatici. Spesso si utilizza il termine “rifugiati climatici“, ma le Nazioni Unite non ne hanno mai approvato formalmente l’adozione. L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (International Organization for Migration – IOM) utilizza il termine ” migranti ambientali”.  Con l’accentuarsi degli effetti del cambiamento climatico, potremmo avere bisogno non solo di una definizione – ma anche di soluzioni.

L’UNHCR stima che dal 2008, una media di 21,5 milioni di persone sono state sfollate ogni anno a causa di calamità naturali, come inondazioni, tempeste e incendi, legate alle condizioni atmosferiche. Ma c’è una distinzione importante tra sfollati e rifugiati che è fondamentale per capire la complessità della situazione. Per conseguire lo status di rifugiato, una persona deve essere “in fuga da persecuzioni o violenze e deve attraversare un confine nazionale”. Gli spostamenti e le migrazioni indotte dai cambiamenti climatici non rientrano effettivamente all’interno dei trattati. La maggior parte delle migrazioni che avvengono come conseguenza dei cambiamenti climatici sono interne ai confini nazionali, la cui gestione è quindi di competenza dei governi centrali. La questione si fa decisamente più complicata se gli spostamenti diventano internazionali. Poiché la definizione legale non è codificata, etichette descrittive come “rifugiato climatico” non vincolano gli Stati ad alcuna responsabilità.

Ma qualcosa sembra muoversi. È di poche settimane la notizia che la Nuova Zelanda potrebbe diventare il primo paese del mondo a riconoscere i cambiamenti climatici come motivazione ufficiale a causa della quale poter richiedere asilo. Se la decisione venisse implementata, fino a 100 rifugiati all’anno potrebbero essere ammessi. Questo potrebbe apparire relativamente insignificante, osservando le statistiche dell’Internal Displacement Monitoring Center che prevedono dalle 150 alle 300 milioni di persone costrette ad abbandonare le loro case per cause ambientali entro il 2050.

Il nuovo ministro dei cambiamenti climatici neozelandese James Shaw ha però confermato a Radio New Zealand che “una categoria sperimentale di visti umanitari” potrà essere realizzata per le popolazioni del Pacifico che sono, o rimarranno, sfollate a causa dell’innalzamento del livello del mare derivante dai cambiamenti climatici. Un primo passo verso la formulazione di un accordo globale vincolante riguardo la definizione di rifugiato ambientale e la ridefinizione dei piani di adattamento.

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