Consumo di suolo: la perdita di 2 metri quadri al secondo costa 2 miliardi di euro l’anno

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Consumo di suolo: la perdita di 2 metri quadri al secondo costa 2 miliardi di euro l’anno

Aggiornate le stime Ispra, alle quali si aggiunge lo stock di capitale naturale che non c’è più. Tutto per realizzare soprattutto “Cantieri e altre aree in terra battuta”. Come invertire il trend? «Sono evidentemente necessari atti normativi efficaci»
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Anche nel 2017 il consumo di suolo continua a crescere in Italia: nell’ultimo anno le nuove coperture artificiali hanno mangiato altri 54 chilometri quadrati di territorio, e non si tratta di una perdita indolore – neanche dal punto di vista economico. A fronte di 2 metri quadrati al secondo persi, il consumo di suolo esige un prezzo molto salato per il Paese: da un minimo di 1,66 a un massimo di 2,13 miliardi di euro persi ogni anno tra il 2012 e il 2017 se si guarda alla stima dei costi totali della perdita di servizi ecosistemici (tra i quali regolazione del ciclo idrologico, dei nutrienti, del microclima, miglioramento della qualità dell’aria, riduzione dell’erosione), ai quali si aggiunge il valore del capitale naturale perso nello stesso periodo, per circa 1 miliardo di euro. Sono questi i dati del rapporto Ispra-Snpa sul “Consumo di suolo in Italia 2018” presentati questa mattina alla Camera dei Deputati.

Dal punto di vista della distribuzione territoriale, il consumo di suolo è in particolare aumento nelle regioni in ripresa economica, come accade nel Nord-Est del Paese, ma non solo. L’Ispra informa che nel 2017 in 15 regioni viene superato il 5% di consumo di suolo, con il valore percentuale più elevato in Lombardia (che con il 12,99% arriva a sfiorare il 13%) e in Veneto (12,35%) e in Campania (10,36%). Seguono Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Puglia e Liguria, con valori compresi tra l’8 e il 10%, mentre la Valle d’Aosta è l’unica regione rimasta sotto la soglia del 3%. Un livello di dettaglio che si fa più preciso fino ad arrivare a dati comunali: i maggiori valori di superficie consumata si riscontrano a Roma (31.697 ettari), con una crescita di ulteriori 36 ettari nel 2017 (lo 0,11% in più) e in molti comuni capoluoghi di provincia come Milano (10.439 ettari, 19 in più nel 2017), Torino (8.546, solo 0,2 in più), Napoli (7.423, +6,6), Venezia (7.216, +37,4), Ravenna (7.121, +16,2), Palermo, Parma, Genova, Verona, Ferrara, Taranto, Catania, Perugia, Reggio Emilia e Ragusa (tra i 5.000 e i 7.000 ettari di suolo artificiale nel 2017).

In termini percentuali, l’Ispra rileva ormai che diversi comuni superano il 50%, e talvolta il 60%, di territorio consumato. Ma consumato per fare cosa? Nell’arco dei dodici mesi, risponde l’Ispra, «gran parte dei cambiamenti rilevati rientrano nella classe “Cantieri e altre aree in terra battuta (Piazzali, parcheggi, cortili, campi sportivi, depositi permanenti di materiale)” che, da sola, ha riguardato il 62,8%5 del nuovo consumo di suolo, pari a 3.037 ettari. Sono aree che, in molti casi, sono destinate a trasformarsi nel giro di poco tempo in consumo di suolo permanente ma che, almeno in parte, potrebbero essere recuperate e rinaturalizzate una volta terminata la cantierizzazione. Il 16,4% è rappresentato da superfici non consumate del 2016 dove, in un anno, sono stati realizzati edifici, mentre le nuove strade rappresentano il 4,7% dei cambiamenti, a dimostrazione del fatto che, generalmente, i tempi di realizzazione delle infrastrutture sono più lunghi di quelli per la realizzazione di fabbricati. Le altre aree impermeabili o pavimentate non edificate (piazzali, parcheggi, cortili, campi sportivi, etc.) rappresentano l’8,8% del nuovo consumo, pari a 423 ettari, mentre il 3,5% dei cambiamenti (171 ettari) è dovuto all’espansione di aree estrattive e l’1,5% (73 ettari) a nuovi campi fotovoltaici a terra».

È chiaro che il trend in corso da troppi anni non può proseguire all’infinito. L’azzeramento del consumo di suolo netto, obiettivo che l’Unione Europea ci chiede di raggiungere entro il 2050, significa evitare l’impermeabilizzazione di aree agricole e di aree aperte e, per la componente residua non evitabile, compensarla attraverso la 3 rinaturalizzazione di un’area di estensione uguale o superiore, che possa essere in grado di tornare a fornire i servizi ecosistemici forniti da suoli naturali: è questo l’orizzonte.

Il problema è che dobbiamo muoverci subito per tagliarlo in tempo, e l’immobilismo politico è il principale nemico da sconfiggere: «Sono evidentemente necessari atti normativi efficaci – sottolineano dall’Ispra – che possano indirizzare le politiche di governo e le azioni di trasformazione del territorio verso un rapido contenimento del consumo di suolo agricolo o naturale. Tuttavia, come in Europa pesa l’assenza di una Direttiva quadro sul suolo, anche in Italia il Parlamento non ha ad oggi approvato una legge che abbia l’obiettivo di proteggere il suolo dalla sua progressiva copertura artificiale».

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