Disastro petrolifero della Deepwater Horizon: dopo 10 anni sul fondo ci sono solo granchi malati

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Disastro petrolifero della Deepwater Horizon: dopo 10 anni sul fondo ci sono solo granchi malati

Gli effetti persistenti ed estremi della fuoriuscita di petrolio sul mare profondo e sulle spiagge
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Nel 2010 Marla Valentine e Mark Benfield furono i primi scienziati a studiare i fondali dove, il 20 aprile, si era verificato l’incidente della piattaforma Deepwater Horizon (DHW) che, per 87 giorni aveva riversato circa 4 milioni di barili nel Golfo del Messico dal pozzo di Macondo: il più grande disastro petrolifero della storia. Pochi mesi dopo la fuoriuscita di petrolio, Valentine e Benfield, utilizzando un ROV si resero conto della vastità dell’impatto: un fondale completamente devastato dal quale era scomparsa gran parte della biodiversità, disseminato di cadaveri di pirosomi, salpe, cetrioli di mare, penne di mare e spugne di vetro.

Dopo i ricercatori hanno continuato a riscontrare gravi impatti sulla vita di profondità che nei primi mesi dopo l’incidente sono stati sconcertanti: foramiferi meno 80–93%, copepodi -64%, meiofauna -38%, macrofauna -54% e megafauna -40%. A un anno dal disastro, gli impatti sulla biodiversità erano ancora evidenti e correlati con aumenti degli idrocarburi di petrolio totali (Total petroleum hydrocarbons – TPH), gli idrocarburi policiclici aromatici (PAH) e bario nei sedimenti di profondità. Nel 2014, i PAH erano ancora 15,5 volte superiori e i TPH 11,4 nella zona di impatto rispetto alla zona di non impatto e le zone di impatto presentavano ancora una biodiversità ridotta. La ricerca sui coralli ha rilevato che nel 2017 la maggior parte delle colonie non si era ancora ripresa. Nonostante tutto questo, gli studi sugli impatti della fuoriuscita di petrolio della DWH nella maggior parte delle acque profonde si sono conclusi nel 2014.

A riprendere le ricerche per cercare di colmare il gap di conoscenze ci hanno pensato Craig McClain e Clifton Nunnally del Louisiana Universities Marine Consortium (LuCon) e lo stesso Mark Benfield del College of the Coast and Environment della Louisiana State University che alla fine hanno pubblicato lo studio “Persistent and substantial impacts of the Deepwater Horizon oil spill on deep-sea megafauna”, pubblicato su Royal Society Open Science,

McClain è tornato sul luogo del delitto e il ROV inviato in fondo al mare ha subito inquadrato uno stivale da lavoro nell’abisso. Ma appena il ROV ha raggiunto il fondale marino tutti gli scienziati presenti sulla nave di ricerca hanno capito che c’era qualcosa che non andava. McClain , Benfield e Nunnally spiegano che nel luogo dell’incidente le profondità marine non si stanno riprendendo: «Il fondale marino era irriconoscibile rispetto agli habitat sani nelle profondità del Golfo del Messico, era rovinato da relitti, sconvolgimenti fisici e sedimenti ricoperti di neve marina nera e oleosa. Vicino al relitto e alla testata del pozzo, molti degli animali caratteristici di altre aree di profondità del Golfo del Messico, tra cui cetrioli di mare, isopodi giganti, spugne di vetro e coralli frusta, erano assenti. Quel che abbiamo visto era un’omogenea una terra desolata, in grande contrasto con la ricca eterogeneità della vita vista nelle profondità marine sane. Erano assolutamente assenti gli animali sessili che in genere si aggrappano a qualsiasi tipo di struttura dura in un habitat altrimenti morbido e fangoso. Il substrato duro nel mare profondo è un bene prezioso ma nel sito della Deepwater Horizon il metallo e altri substrati duri erano privi di colonizzatori tipici delle acque profonde».

Invece nel fondale marino della zona di impatto c’era un elevato numero di gamberi e granchi, tutti ricoperti da tumori e che costituivano il 92% degli animali visibili. Normalmente, quando vengono illuminati dalle luci del ROV, i granchi di profondità scappano, ma quelli del fondale della DWH si sono semplicemente spostati come piccoli zombi oceanici. Molti avevano gusci anneriti, erano pieni di parassiti o avevano artigli e zampe mancanti. I ricercatori dicono che «I granchi mostravano evidenti anomalie fisiche chiaramente visibili e un comportamento lento rispetto ai granchi sani che avevamo osservato altrove. Crediamo che questi crostacei siano attratti dal sito perché gli idrocarburi degradanti imitano alcuni dei loro ormoni naturali, in particolare quelli associati all’attrazione sessuale. Una volta che questi crostacei raggiungono il sito, possono diventare troppo malati per poterlo lasciare».

L’immersione del ROV ha illuminato una tragedia umana nella quale dei lavoratori hanno perso la vita, ma anche una catastrofe ambientale. McClain conclude: «In un ecosistema che misura la sua longevità in secoli e millenni, l’impatto di 4 milioni di barili di petrolio continua a costituire una crisi di proporzioni epiche».

Fortunatamente le specie di crostacei attratte da questo deserto sottomarino oleoso non vengono pescate, quindi non rappresentano una minaccia diretta per l’uomo, anche se si teme che a contaminazione possa risalire la catena alimentare.

Per le bonifiche costiere della marea nera e studiarne le conseguenze sono stati spesi 65 miliardi di dollari, ma si è fatto molto poco per i fondali marini, praticamente impossibili da bonificare, anche se su 1.200 miglia quadrate di fondali si sono depositati 10 milioni di galloni di petrolio. La BP e le altre multinazionali – ma anche le istituzioni – coinvolte nel disastro petrolifero dicono che il greggio depositato in fondo al mare non è più dannoso, ma i risultati di questo studio sembrano smentirli clamorosamente.

McClain chiosa: «Il mare profondo è sempre lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Puoi bruciare e disperdere il petrolio in superficie, ma non abbiamo la tecnologia per eliminare il petrolio sul fondo del mare».

E pensare che i clamorosi risultati dello studio sono frutto del caso: Il team del LuCon ha deciso di dare un’occhiata poiché erano nelle vicinanze per condurre un altro studio e avevano una giornata libera per utilizzare il l costoso ROV. McClain aggiunge: «Sono preoccupato per il fatto che non c’è stato alcun grande lavoro e un monitoraggio continuo del recupero o della mancanza di recupero sul sito. Non possiamo cominciare a sapere che aspetto abbia il ripristino delle profondità marine fino a quando in realtà non riusciremo a capire quanto velocemente si stanno riprendendo». Il team spera di avere un’altra giornata libera nel prossimo futuro per cercare di catturare alcuni dei crostacei malati vicino alla testa del pozzo per ulteriori studi».

Intanto, mentre non si sa praticamente nulla sulle conseguenze di una mega fuoriuscita di petrolio nelle profondità marine, gli scienziati stanno ancora cercando di capire quali siano gli impatti in superficie del disatro della DWH.

Se ne è un occupato il nuovo studio “Decomposition of sediment-oil-agglomerates in a Gulf of Mexico sandy beach”, pubblicato su Scientific Reports da un team di ricercatori della Florida State University e del Georgia Institute of Technology che dmostra che grumi di petrolio e sabbia delle dimensioni di una pallina da golf sono sepolti nelle spiagge del Golfo e potrebbero richiedere fino a 30 anni per decomporsi completamente, anche se ci sono grumi più grandi impiegheranno ancora più tempo.

Infatti, i principali autori dello studio, Markus Huettel e Ioana Bociu della Florida State University hanno rivelato che ci sono grossi ammassi di petrolio e sabbia – chiamati sediment-oil-agglomerates – che impiegano almeno 30 anni per decomporsi» e Huttel aggiunge che «Questo petrolio contiene sostanze dannose per l’ambiente e per l’uomo. Comprendere il destino di questo petrolio sepolto è fondamentale, poiché può persistere per lunghi periodi di tempo».

La marea nera della Deepwater Horizon aveva contaminato circa 965 chilometri di spiagge sabbiose lungo la costa del Golfo del Messico. Una parte venne rapidamente bonificata e studi precedenti condotti da Huettel e dal suo collega Joel Kostka del Georgia Institute of Technology avevano scoperto che delle goccioline di petrolio provenienti dalla Deepwater Horizon erano state degradate in appena un anno dai microbi presenti nella sabbia o da onnipresenti microrganismi microscopici». Buona parte del greggio spiaggiato è stato tolto scavandolo nelle spiegge con mezzi meccanici, ma parte del petrolio è rimasto sepolto fino a 70 centimetri di profondità nella sabbia.

Per capire cosa potrebbe succedere dei contaminantirimanenti, Huettel e il suo team hanno condotto un esperimento triennale sui sediment-oil-agglomerates sepolti nelle sabbie bianche di Pensacola Beach nel nord-ovest della Florida e hanno scoperto che «Questi grumi di petrolio e sedimenti sepolti, che di solito misurano meno di 10 centimetri di diametro, impiegano all’incirca tre decenni per decomporsi completamente: un risultato dovuto alla loro superficie più piccola a ai rapporti del volume con il limitato ossigeno, l’umidità e sostanze nutritive disponibili per la vita microbica».

Mentre i grumi delle dimensioni di una pallina da golf erano gli agglomerati più comuni sepolti lungo le spiagge della costa del Golfo, altri contaminanti più pesanti scoperti dai ricercatori richiederebbero periodi ancora più lunghi per degradarsi completamente.

Huettel spiega ancora. «Dopo lo sversamento della Deepwater Horizon, a Pensacola Beach abbiamo trovato agglomerati di sedimenti e petrolio delle dimensioni di una stampante da ufficio e persino più grandi. Dopo la sepoltura, questi resterebbero nella spiaggia molto più a lungo rispetto ai nostri agglomerati delle dimensioni di una pallina da golf».

Trent’anni dalla sepoltura alla completa decomposizione possono sembrare un periodo di degrado pericolosamente lungo, ma lo studio di Huettel ha dimostrato che «Senza le proprietà ecologiche uniche di una spiaggia sabbiosa, gli stessi agglomerati delle dimensioni di una pallina da golf richiederebbero più di 100 anni per sparire. Questo sottolinea il ruolo fondamentale di filtro biocatalitico svolto dalle sabbie delle spiagge, che può essere confrontato con i filtri a sabbia utilizzati per la depurazione delle acque, le piscine o gli acquari. Le sabbie della spiaggia colonizzate da microbi che vengono scaricati dalle onde che si riversano sulla riva funzionano in modo simile e quindi possono pulire grandi quantità di acqua. Più lontano sulla spiaggia, oltre la portata delle onde che si infrangono, le oscillazioni regolari delle acque sotterranee svolgono un ruolo altrettanto importante. Quando i livelli delle acque sotterranee diminuiscono, l’aria calda e ricca di ossigeno viene aspirata nelle sabbie, nutrendo i microbi che degradano il petrolio e stimolando la loro attività di biodegradazione. Quando le acque sotterranee aumentano, l’umidità, che è essenziale per la biodegradazione, viene trasportata fino ai microbi e l’anidride carbonica risultante da tale biodegradazione viene espulsa. La spiaggia, respirando con il ritmo delle maree, può quindi essere paragonata a un grande organismo che “digerisce” aerobicamente la materia organica, incluso il petrolio, inspirando ossigeno ed espirando biossido di carbonio. L’apparente pulizia della sabbia di cui tutti godiamo quando andiamo in spiaggia è un riflesso del reale processo di decomposizione biocatalitica della spiaggia che rimuove il materiale degradabile in un tempo relativamente breve. Senza questo processo di “respirazione” naturale, gli agglomerati di petrolio e altri materiali tossici si accumulerebbero sulla spiaggia, compromettendo l’ecologia della zona e rendendo putride le acque costiere».

Ma il filtro biocatalitico della sabbia non è infallibile: se il carico di particelle organiche e inorganiche cresce in modo non sostenibile, una spiaggia prima incontaminata e la sua sabbia possono trasformarsi in un disastro fangoso, impenetrabile per l’ossigeno e quindi inospitale per degradatori aerobici. Questo deterioramento ecologico può provocare zone ipossiche – aree prive di ossigeno – che stanno diventando sempre più comuni in tutto il mondo.

Huttel conclude: «La protezione delle spiagge è quindi fondamentale per mantenere un ambiente costiero sano».

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