Ci sono due continenti nascosti nelle profondità della Terra

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Ci sono due continenti nascosti nelle profondità della Terra

Nelle profondità del mantello terrestre, in corrispondenza dell’Africa e del Pacifico, si nascondono due enormi masse di materiale caldissimo. ll comportamento di queste misteriose formazioni, forse risalenti all’infanzia della Terra, potrebbe influenzare l’intero pianeta, dalla struttura delle catene di isole alle estinzioni di massa
di Joshua Sokol/Quanta Magazine
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Decenni fa gli scienziati hanno imbrigliato per la prima volta gli echi dei terremoti per creare una mappa delle profondità terrestri. Non hanno trovato solo gli strati a cipolla che forse ricordate dai libri di scuola, cioè nucleo e mantello coperti da una crosta frantumata. Hanno visto invece i contorni imprecisi di due enormi anomalie, forme sconosciute che ci guardavano dall’abisso.

Nel corso degli anni, mappe migliori hanno continuato a mostrare le stesse strutture, simili a bolle. Una è raggomitolata sotto l’Africa, l’altra sotto il Pacifico. Si nascondono dove il nucleo di ferro fuso del pianeta incontra il mantello roccioso, e galleggiano come mega-continenti nel mondo sotterraneo. Nel punto più alto potrebbero superare l’altezza dell’Everest di oltre 100 volte. E se in qualche modo dovessero  emergere in superficie – Dio non voglia – conterrebbero materiale a sufficienza per coprire tutto il globo in un lago di lava profondo un centinaio di chilometri.

La posizione delle due gigantesche masse sepolte tra il mantello e il nucleo terrestre (© Olena Shmahalo/Quanta Magazine, su dati di Sanne Cottaar

“Sarebbe come avere un oggetto in cielo e chiedere: ‘È la Luna?’ E sentirsi rispondere no. ‘È il Sole?’ No. ‘Che cos’è’” Non lo sappiamo!” ha detto Vedran Lekic, sismologo all’Università del Maryland. “Qualunque cosa sia, ha un legame profondo con l’evoluzione della Terra.”

Il primo mistero di queste gigantesche entità nascoste è se siano fatte di un materiale diverso dal resto del mantello terrestre. Il secondo è: come fanno queste strutture profonde a lasciare tracce nel nostro mondo in superficie?

Entrambi gli interrogativi sono ancora aperti. Negli ultimi anni però molti esperti di scienze della Terra hanno cominciato a sostenere la tesi che queste forme indefinite siano cumuli di roccia densa che brucia senza fiamme, e che risalgano alla nascita del pianeta. Nell’ultimo anno, svariati studi hanno ipotizzato che la loro costante influenza possa essere la causa di fenomeni ancora inspiegabili in hot spot vulcanici come le Hawaii.

“Sono le cose più grandi del pianeta”. è il commento di Ed Garnero, sismologo all’Arizona State University. “Solo di recente ho cominciato a pensare: ‘Wow, potrebbe essere qualcosa di molto profondo’.”

Verso il nucleo
Se un illustratore scientifico onnipotente tagliasse a metà la Terra, per prima cosa dovrebbe incidere la crosta sottile su cui viviamo, frantumanta in placche tettoniche in movimento. Poi dovrebbe attraversare il mantello roccioso. Solo a una profondità di 2900 chilometri, circa a metà strada verso il centro vero e proprio, troverebbe il confine tra nucleo e mantello.

Rappresentazione classica della struttura interna della Terra, con il nucleo solido al centro (in giallo), il nucleo esterno (in arancione), il mantello e la crosta (© Claus Lunau/SPL/AGF)

Per mappare quella parte della Terra i sismologi usano le onde emesse dai terremoti. Quando le onde si diffondono, cambiano velocità a seconda del materiale che attraversano. Di conseguenza arrivano a stazioni di monitoraggio diverse in momenti diversi. Nel 1984 Adam Dziewonski, ricercatore a Harvard,  ha fatto confluire per la prima volta in una mappa globale i dati di molti terremoti diversi. Sono subito apparse le due bolle, attaccate al nucleo da due parti come gli chignon laterali della principessa Leia.

In queste regioni le onde sismiche sembrano rallentare,suggerendo che le bolle siano più calde del mantello circostante. Come facciamo a saperlo? Riscaldandosi la roccia si espande, per cui, spiega Garnero, le onde viaggiano lente nelle regioni calde, come le vibrazioni che attraversano più lentamente una corda di chitarra poco tesa.

Da queste onde lente deriva il nome ufficiale di queste zone, LLSVP (large low-shear-velocity provinces, grandi province a bassa velocità di taglio): un’abbreviazione poco accattivante che potrebbe avere contribuito al basso profilo di questo argomento. “È anche colpa nostra”, ha commentato Sanne Cottaar, sismologa all’Università di Cambridge. “Abbiamo trovato un nome davvero inadatto.”

Sanne Cottaar, sismologa all’Università di Cambridge (Ward Cottaar)

All’inizio gli esperti di scienze della Terra che osservavano queste macchie calde sostenevano che oltre alla loro unica caratteristica evidente, il calore, non ci fosse altro. Alcuni ne sono ancora convinti.

Secondo questa scuola di pensiero, le bolle non sarebbero altro che fenomeni termici. Col tempo, il mantello si agita come una pentola d’acqua che bolle con una lentezza esasperante. Dal basso, dove il mantello tocca il nucleo, sale il calore, facendo sì che la roccia nel mantello salga sotto forma di pennacchi. Dove i sismologi mappano delle bolle, potrebbero esserci solo delle zone sfocate alla base dei più grandi raggruppamenti di pennacchi caldi al mondo.

In base a questa tesi, le bolle sono costituite per lo più dallo stesso materiale del resto del mantello. E la loro posizione è determinata dalle placche tettoniche in alto, non da qualcosa di sinistro e intrinseco di queste regioni. Quando una placca tettonica della crosta terrestre è spinta sotto un’altra, nella cosiddetta subduzione, affonda. Questo processo porta roccia più fredda giù nel mantello.

Eppure è da centinaia di milioni di anni che sopra le regioni delle bolle non avviene una subduzione di placche,  osserva Saskia Goes dell’Imperial College di Londra. “È l’assenza di materiale freddo a renderle relativamente calde.”

Nel frattempo l’altra fazione non dubita che i pennacchi salgano dalle regioni calde delle bolle. Sostiene però che queste abbiano di per sé qualcosa di speciale.

Dalla metà degli anni duemila, vari team di sismologi stanno osservando i segnali dei terremoti provenienti dai margini di queste regioni. Questi segnali presentano un andamento complicato, indizio del fatto che le onde stessero attraversando un confine abbastanza netto. Così si può ipotizzare che i margini delle bolle segnino una transizione nei materiali, non solo nella temperatura.

Secondo questa teoria le bolle sono esempi delle cosiddette pile termochimiche: blocchi di roccia densa con una composizione chimica specifica. Dato il loro contatto prolungato con il nucleo, sono più caldi rispetto al resto del mantello e provocano così la fuoriuscita dei pennacchi.

Presupponendo che le bolle siano qualcosa di distinto, potrebbero essere antiche, gli ultimi residui sopravvissuti dall’infanzia della Terra. Secondo una tra le ipotesi più accreditate, si formarono quando tutto il mantello inferiore era un oceano di magma, poco dopo la nascita del pianeta. La roccia cominciò a raffreddarsi e cristallizzarsi, ma il ferro rimase fuso nell’oceano di magma, afferma Nicolas Coltice dell’École Normale Supérieure di Parigi. Poi, quando gli ultimi residui di magma si cristallizzarono, erano così densi e ricchi di ferro che scesero sul fondo del mantello, formando le bolle.

Laggiù dovettero sopravvivere al più grande cataclisma della Terra primordiale: un ipotetico impatto con un corpo grande come Marte, detto Theia, che alla fine avrebbe dato origine alla Luna. Oppure – immagina Garnero – le pile dense e distinte potrebbero essere perfino frammenti della stessa Theia, sepolti per sempre nelle profondità della Terra. Secondo lo scenario esclusivamente termico, in effetti è la tettonica a placche a muovere e scuotere il mondo, dettando dove avviene la risalita del materiale. I sostenitori delle pile termochimiche invece ritengono che le bolle calde, pesanti e stabili abbiano invece uno scambio reciproco con il sistema tettonico in superficie. Le correnti fredde provenienti dalle placche discendenti spingerebbero in giro le bolle come un fluido amorfo; e a sua volta, il calore che risale dalle bolle calde spingerebbe indietro le placche.

Gli enigmi degli hot spot
Per verificare quanto le bolle contribuiscano a pilotare la nave geofisica, gli scienziati hanno osservato le Hawaii. Nell’ultimo anno i ricercatori hanno chiamato in causa le bolle per risolvere due annosi misteri di questa zona.

Per prima cosa, consideriamo la catena Hawaii-Emperor, una serie di isole e montagne sottomarine. La catena parte dall’isola di Hawaii, ancora in crescita, e si estende per 6200 chilometri, fino ad arrivare vicino alla Russia. Da molto tempo i geologi considerano la catena un hot spot: via via che la placca pacifica scivola sopra un pennacchio fisso del mantello, dal basso il pennacchio spinge verso l’alto nuove isole vulcaniche.

La catena Hawaii-Emperor (© National Geophysical Data Center/USGS)

L’unico problema è la curva: proprio al centro, la catena si piega a 60 gradi. I geofisici ritenevano che questa curva fosse stata generata molto tempo fa da una variazione nel movimento della placca. Ma secondo una tesi sostenuta da un team nello scorso luglio, perché tutti i dati possano combaciare deve essersi spostato anche il pennacchio. E la colpa sarebbe della bolla.

Secondo studi precedenti, il pennacchio hawaiano potrebbe avere avuto origine lontano dal margine della bolla pacifica, commenta John Tarduno dell’Università di Rochester, coautore del nuovo articolo. Ma le correnti nel mantello avrebbero deformato la bolla e attirato il pennacchio verso di esso. Alla fine il pennacchio si sarebbe fermato vicino al margine della bolla.

Il collegamento tra le Hawaii e la bolla pacifica potrebbe a sua volta risolvere un altro enigma, che interessa anche altre zone.

Da molto tempo i geochimici cercano di spiegare perché la lava delle Hawaii e di altri hot spot come le isole Samoa, le Galapagos e l’Islanda abbia una firma chimica unica. Per esempio, la lava proveniente da questi hot spot contiene una concentrazione relativamente alta di elio-3, un residuo primordiale che precede l’origine del sistema solare. Gli scienziati hanno scoperto un fenomeno simile negli isotopi di neon, ritenuti più o meno altrettanto antichi, e in quelli di tungsteno e xeno, entrambi formati dal decadimento radioattivo di altri elementi poco dopo la nascita della Terra.

A luglio un team diretto da Curtis Williams, geochimico presso l’Università della California a Davis, ha pubblicato alcune simulazioni che indicano la presenza di pennacchi sotto gli hot spot, giù lungo il mantello fluido. Hanno scoperto che questi pennacchi arrivano fino alle bolle e portano con sé caratteristiche chimiche uniche. “Qualunque sia la parte del mantello da cui arrivano [i pennacchi]– dice Williams – è molto vecchia.”

Le scoperte confermano che le bolle devono essere costituite da “materiali antichi”, afferma Roberta Rudnick, geochimica all’Università della California a Santa Barbara. “È un periodo davvero emozionante.”

Mentre pennacchi e mulinelli vorticano intorno alle bolle, le correnti a volte potrebbero catturare piccoli grumi di materiale della bolla stessa, e questo spiegherebbe la stranezza della lava negli hot spot molto più in alto. Ma di tanto in tanto potrebbero staccarsi anche dei pezzi più grandi, fatto che potrebbe essere collegato a un’altra tendenza strana.

Secondo studi condotti da Trond Torsvik all’Università di Oslo, le bolle sembrano collegate a una ventina di regioni superficiali dette grandi province ignee: luoghi in cui, per varie volte nel passato della Terra, milioni di chilometri cubi di lava sono fuoriusciti dalla superficie come da ferite aperte. Molti di questi eventi sono a loro volta legati a estinzioni di massa come la cosiddetta Grande Moria, il maggior episodio di devastazione della vita nell’ultimo mezzo miliardo di anni.

Se quella correlazione non fosse una coincidenza, Lekic ipotizza che questi eventi possano perfino derivare da piccole bolle staccate dalle strutture principali. Spinte fino in superficie, sarebbero abbastanza calde da fondere le rocce e provocare eruzioni gigantesche e durature. Quel vulcanesimo a sua volta potrebbe avere cambiato il clima, portando addirittura alle estinzioni di massa. Una simile sequenza di eventi, se è avvenuta, sarebbe stata la catastrofe definitiva delle epoche antidiluviane: estinzioni apocalittiche provocate da strutture sotterranee sepolte fin dalla nascita del mondo.

Secondo Garnero, è probabile che da vicino le profondità della Terra siano meno uniformi di quanto sembrano, con più di due bolle, così come le mappe del nostro mondo comprendono sia grandi continenti sia isole e penisole minori. Masse di materiale caldo più piccole potrebbero staccarsi dalle bolle principali e andare alla deriva: questo spiegherebbe i luoghi come Yellowstone, che rispetto agli hot spot su isole è più difficile collegare a fenomeni nelle profondità del mantello.

Tuttavia, una generazione dopo la scoperta delle bolle, i geologi devono ancora perfezionare le proprie misurazioni e i modelli del possibile significato dei dati. “La gente guarda in su, verso le stelle, da più tempo: è più facile”,  commenta Cottaar. “Guardare in giù è sempre stato impegnativo.”

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(L’originale di questo articolo è stato pubblicato il 7 gennaio 2020 da QuantaMagazine.org, una pubblicazione editoriale indipendente online promossa dalla Fondazione Simons per migliorare la comprensione pubblica della scienza. Traduzione di Lorenzo Lilli, editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati)

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