Per comunicare con E.T. non sono sufficienti le onde radio

0

Per comunicare con E.T. non sono sufficienti le onde radio

Quali sono le condizioni che offrono le maggiori possibilità di stabilire un contatto con una civiltà aliena evoluta? Secondo un studio recente, che smonta anche il “paradosso di Fermi”, non dovremmo limitarci a cercare segnali con i radiotelescopi, ma sviluppare tecnologie di comunicazione innovative, basate per esempio sull’uso di neutrini, onde gravitazionali e altro ancora
di Adam Mann/Scientific American
www.lescienze.it

Quali sono le condizioni che offrono le maggiori possibilità di stabilire un contatto con una civiltà aliena evoluta? Secondo un studio recente, che smonta anche il “paradosso di Fermi”, non dovremmo limitarci a cercare segnali con i radiotelescopi, ma sviluppare tecnologie di comunicazione innovative, basate per esempio sull’uso di neutrini, onde gravitazionali e altro ancora

Il progetto SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence, ricerca di intelligenze extraterrestri) si affida da tempo ai radiotelescopi, con cui cerca ascoltare le trasmissioni di potenziali segnalatori alieni. In una vasta galassia come la nostra, però, come potremo mai essere certi di sintonizzarci sulla stazione giusta?

Un nuovo modello di simulazione dei contatti attraverso la Via Lattea suggerisce – e forse non è una sorpresa – che, a meno che la nostra galassia non presenti un’alta densità di specie intelligenti e longeve, le probabilità di imbattersi in un segnale sono basse. Ma i risultati pubblicati su “International Journal of Astrobiology” fanno anche pensare che la probabilità di interazioni andrebbe al massimo appena diventa disponibile una nuova tecnologia di comunicazione.

Oltre ad alimentare scenari fantastici – accendiamo l’interruttore di un nuovo congegno di ascolto, et voilà, ecco E.T. che ci chiama – i risultati potrebbero stimolare la voglia di innovazione di aspiranti cacciatori di alieni. In ultima analisi, impegnarsi nella ricerca e sviluppo di nuovi metodi per comunicare a distanze cosmiche potrebbe offrire migliori probabilità di ottenere un contatto rispetto a programmi di lunga durata che usano un’unica tecnologia.

Marcelo Lares ha iniziato questa nuova ricerca per sfida. Astronomo all’Università nazionale di Córdoba, in Argentina, di solito Lares lavora all’analisi statistica di grandi masse di dati relativi alle popolazioni stellari, alla struttura su larga scala dell’universo e a eventi legati alle onde gravitazionali. Ragionare sugli alieni non offre una simile abbondanza di informazioni. “Abbiamo una sola osservazione: la Terra è l’unico pianeta noto su cui c’è vita”, dice Lares.


Ridurre le variabili

Le ipotesi scientifiche sulla vita, l’intelligenza e la tecnologia di altri mondi si basano spesso sull’equazione di Drake, dal nome dell’astronomo Francis Drake che nel 1961 formulò per primo questo inquadramento matematico della questione. Nell’equazione, il numero delle specie che emettono segnali è stimato considerano la frazione di stelle dotate di pianeti presenti nella galassia, la percentuale di quei pianeti in cui si sviluppa la vita e le probabilità che quegli esseri viventi arrivino a desiderare di stabilire contatti interstellari e diventino capaci di farlo.

Lares e colleghi volevano qualcosa di più semplice. Invece di azzardare ipotesi sui tanti fattori ignoti coinvolti nello sviluppo della vita, dell’intelligenza e della tecnologia, hanno formulato un modello basato solo su tre parametri: il momento in cui una specie capace di comunicare “si sveglia” e comincia a trasmettere segni della propria esistenza, la distanza a cui possono giungere quei segnali e la durata di ogni trasmissione.

La disposizione che ne risulta è una configurazione matematica con un certo numero di nodi – corrispondenti agli autori di messaggi intelligenti – sparsi a caso per la Via Lattea, che a volte trasmettono e volte no. “È come un albero di Natale”, dice José Funes, astronomo all’Università cattolica di Córdoba e coautore con Lares dello studio. “Con le luci che si accendono e si spengono.”

Il gruppo ha eseguito più di 150.000 simulazioni, partendo ogni volta da un diverso insieme di assunti relativi ai parametri base, in modo da vedere quali scenari avrebbero favorito i contatti interstellari. Una galassia piena di alieni tecnologicamente evoluti che segnalano la propria presenza dà origine a molte più interazioni di una in cui le specie sono separate da grandi distanze o lunghi intervalli di tempo.

Forse non è la più sorprendente delle conclusioni. “È solo un modo statistico di dire che se si vuole far crescere le probabilità di contatto, bisogna aumentare il numero [dei comunicatori]o farli esistere più a lungo”, commenta Ravi Kopparapu, planetologo al Goddard Spaceflight Center della NASA, che non ha contribuito al lavoro.

Lares ribatte che precisare in modo quantitativo le nostre nozioni intuitive ricorrendo a modelli matematici può essere utile, se non altro per evitare che le nostre concezioni di fondo deformino la realtà. I risultati dello studio, aggiunge, stabiliscono una sorta di limite superiore alle probabilità di contatto in varie condizioni.

In tutti i casi esaminati, le simulazioni hanno mostrato che le probabilità di interazioni interstellari sono massime proprio nel momento in cui una specie “si sveglia” ed escogita il giusto modo di comunicare. Ciò perché anche altri nodi si saranno ormai già attivati e – si può presumere – si saranno trovati l’un l’altro, creando in pratica un ampio ramo dell’albero di Natale “con le luci accese”, accrescendo così le probabilità di imbattersi in questa rete di stazioni che trasmettono e ricevono. Ma se le luci sono fuori sincrono o si accendono in tempi molto diversi – una situazione analoga all’affidarsi alla tecnologia sbagliata o essere separati da lunghi intervalli di tempo – le specie intelligenti potrebbero benissimo non trovarsi mai.


Quando le onde radio, la tecnologia storicamente preferita dal progetto SETI, diventarono comunemente accessibili, nella prima metà del XX secolo, è persino avvenuto che alcune scoperte siano state inizialmente scambiate per trasmissioni aliene. Negli anni sessanta, la prima pulsar mai rilevata – una stella in rapida rotazione –  all’inizio fu identificata dagli astronomi britannici Jocelyn Bell Burnell e Anthony Hewish con la sigla LGM-1, dove LGM stava per little green man (“omini verdi”) perché gli impulsi emessi dalla pulsar parevano troppo regolari per essere di origine naturale.

Ma nel corso dei decenni, l’umanità ha gradualmente ridotto le sue emissioni radio, passando via via ai cavi e alle fibre ottiche, e questo ha limitato le probabilità che qualche alieno possa imbattersi in qualche nostra trasmissione.

Superare il paradosso di Fermi

Gli autori del nuovo studio vedono nei loro risultati una possibile risposta al paradosso di Fermi, che si chiede perché non abbiamo trovato prove di alieni intelligenti, dato che nella lunga storia della nostra galassia alcune specie tecnologiche ormai avrebbero potuto sorgere e inviare segnali della sua esistenza attraverso lo spazio. Lo studio suggerisce che questa assenza non sia molto significativa: forse E.T. è troppo lontano da noi nello spazio e nel tempo o sta semplicemente usando un sistema di comunicazione che non conosciamo.

Al centro della ricerca c’è anche il tentativo di liberarsi da qualcuno dei pregiudizi antropocentrici che tendono ad affliggere le ipotesi sugli alieni. “È molto difficile immaginare comunicazioni extraterrestri al di fuori della nostra mentalità antropomorfica”, dice Funes. “Bisogna fare uno sforzo e cercare di uscire da noi stessi.” Kopparapu concorda. “Le scoperte inattese vengono da fonti inattese”, dice. “Nel nostro comune modo di pensare, siamo dentro una scatola. Ci è difficile accettare che possa esserci qualcosa al di fuori di essa.”

L’approccio SETI centrato sulle onde radio si è sviluppato in particolari circostanze, e per un breve tratto della storia umana. Anche se a volte  si è provato a usare altri mezzi per scoprire alieni intelligenti – come la ricerca di raggi laser ad alta potenza o di indizi di immense strutture artificiali che potrebbero avvolgere un’intera stella, le cosiddette sfere di Dyson – tutti questi tentativi sembrano comunque risentire dei limiti dell’immaginazione umana non meno che di quelli imposti dalle leggi fondamentali della fisica.

Eppure, la ricerca di una cosa fantastica come un’altra cultura cosmica richiede la convergenza di numerose discipline, fra cui la fisica e la biologia, ma anche la filosofia, dice Lares. Lo sforzo di pensare a messaggi più creativi, per esempio basati sui neutrini o le onde gravitazionali, o magari su fenomeni che la scienza deve ancora scoprire, può servire a liberarci dai paraocchi e anche a farci capire meglio noi stessi.

Anche se le probabilità di contatto sono basse, Lares spera che aggredire il problema in molti modi diversi possa prima o poi dare dei frutti. “Penso che ricerche come SETI siano scommesse ad alto rischio”, dice. “Le probabilità di successo in effetti sono molto scarse. Ma la vincita, nel caso, sarebbe altissima.”

(L’originale di questo articolo è stato pubblicato su “Scientific American” il 2 settembre 2020. Traduzione di Alfredo Tutino, editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)

Share.

Leave A Reply