Abbiamo davvero scoperto segni di vita su un pianeta extrasolare?
Il telescopio spaziale James Webb ha rilevato nell’atmosfera di K2-18b, un mondo situato a 124 anni luce da noi, tracce di molecole che sulla Terra sono prodotte da organismi viventi. Senza dubbio è uno dei dati più intriganti mai ottenuti in astrobiologia. Ma è ancora ben lontano dal dimostrare l’esistenza di vita extraterrestre
di Massimo Sandal
www.lescienze.it

Ci sono segni di vita altrove nell’universo? Il 17 aprile 2025 il gruppo guidato dal professor Nikku Madhusudhan dell’Università di Cambridge ha annunciato di aver rintracciato, grazie al James Webb Space Telescope (JWST), un possibile indizio di attività biologica su un pianeta extrasolare: tracce di dimetilsolfuro (DMS) e dimetildisolfuro (DMDS) nell’atmosfera di K2-18b, un mondo situato a 124 anni luce dalla Terra. La ricerca è stata pubblicata sulle “The Astrophysical Journal Letters”. La parola chiave, però, è “possibile”: a dispetto del clamore mediatico siamo molto lontani dal poter annunciare indizi solidi di forme di vita extraterrestre.
Un mondo diverso dagli altri
K2-18b, scoperto dalla missione Kepler nel 2015, non è un pianeta qualsiasi. Orbita nella “zona abitabile” di una stella nana rossa di tipo M nella costellazione del Leone. Non assomiglia alla Terra: ha una massa 8,6 volte maggiore ed è 2,6 volte più grande. Ma potrebbe essere egualmente abitabile. K2-18b infatti potrebbe essere un cosiddetto pianeta iceanico (dall’inglese hycean, fusione di “hydrogen” e “ocean”): una classe di pianeti interamente coperti da un profondo oceano di acqua liquida, avvolti da una densa atmosfera ricca di idrogeno, ipotizzati per la prima volta proprio da Nikku Madhusudan nel 2021. I pianeti iceanici, se esistono, sono potenzialmente ottimi candidati per la ricerca di vita extraterrestre. Essendo più grandi e con atmosfere più ampie, si possono studiare più facilmente rispetto a mondi piccoli come la Terra.

Per questo motivo, K2-18b è da tempo uno degli “osservati speciali” di JWST, capace di ottenere dati sulle atmosfere planetarie misurando la luce della stella che passa attraverso l’atmosfera del pianeta durante un transito. Diverse molecole assorbono lunghezze d’onda specifiche, creando uno spettro di trasmissione caratteristico. Nel 2023 i primi dati ottenuti da JWST nelle lunghezze d’onda dell’infrarosso vicino, avevano riscontrato la presenza di metano e anidride carbonica, mentre ammoniaca o monossido di carbonio sembravano assenti.
Un dato coerente con quanto previsto per i mondi iceanici, e compatibile con una chimica atmosferica scolpita da esseri viventi. Ma soprattutto, avevano annunciato un segnale suggestivo della presenza di dimetilsolfuro, un composto ritenuto da tempo una “firma” di vita extraterrestre assai interessante. A differenza di molecole come l’ossigeno o il metano, che sulla Terra hanno origine biologica ma possono anche derivare da reazioni chimiche inorganiche, il DMS è emesso per quanto ne sappiamo solo da processi biologici, principalmente dal fitoplancton marino; è una delle sostanze che genera il tipico odore del mare. I segnali raccolti erano però molto deboli e incerti, lasciando quindi scettica la comunità scientifica.
Dati più robusti e numerose incertezze
I nuovi dati sono compatibili con la presenza di DMS e/o di un composto affine, il dimetildisolfuro (DMDS), in concentrazioni pari o superiori a 10 parti per milione. Il segnale è significativo statisticamente al livello di 3 sigma, corrispondente a una probabilità inferiore allo 0,3 per cento che si tratti di una mera fluttuazione casuale; ancora lontano dallo standard di 5 sigma che conferma un risultato in fisica, ma un enorme miglioramento rispetto ai dati del 2023. I nuovi dati inoltre, a differenza dei precedenti, si riferiscono alle lunghezze d’onda dell’infrarosso medio: si tratta quindi di una conferma indipendente, ottenuta con un metodo diverso.
Si tratta senza dubbio di uno dei dati più intriganti mai ottenuti in astrobiologia. Ma è ancora ben lontano dal dimostrare l’esistenza di vita extraterrestre. Per prima cosa, non siamo davvero sicuri che il segnale sia dovuto a DMS e DMDS. Il gruppo di Cambridge, per assegnare un’identità chimica al segnale, ha incluso nell’analisi 20 molecole che possono trovarsi nelle atmosfere di un pianeta extrasolare, oltre alle possibili interferenze dovute alla presenza di nubi o aerosol, e di queste solo DMS o DMDS spiegano lo spettro: ma è possibile che il segnale sia dovuto a un altro tipo di molecola non considerata.
In secondo luogo, una cosiddetta “biofirma” di vita extraterrestre non solo deve presupporre un’origine biologica, ma deve anche escludere un’origine inorganica. DMS di origine non biologica è stato trovato sulla cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko, e alcuni esperimenti hanno mostrato che DMS e DMDS possono formarsi a causa dell’azione dei raggi ultravioletti o dei fulmini, in presenza di metano e acido solfidrico.

Quest’ultima molecola però, obiettano gli autori, al momento sembra assente dall’atmosfera di K2-18b. Gli autori inoltre ritengono che sarebbe implausibile mantenere le concentrazioni osservate di DMS e/o DMDS solo tramite processi inorganici. Concentrazioni che però sollevano un altro enigma: il DMS o il DMDS sembra migliaia di volte più abbondante su K2-18b che sulla Terra, dove è presente in atmosfera in meno di una parte su un miliardo. Questo implica un’attività biologica di proporzioni difficilmente immaginabili o, in alternativa, meccanismi di produzione e accumulo molto diversi da quelli terrestri.
Un punto di partenza, non di arrivo
“Le osservazioni precedenti con Hubble e JWST hanno effettivamente permesso di identificare alcuni composti molecolari (metano e anidride carbonica in particolare) nell’atmosfera di K2-18b con abbondanze che rendono lo scenario di mondo iceano quello al momento più probabile: le nuove osservazioni mostrano evidenza marginale della possibile presenza di dimetil solfuro e/o dimetil disolfuro”, ha spiegato Alessandro Sozzetti, leader del gruppo di ricerca sugli esopianeti all’Osservatorio astrofisico di Torino, invitando alla cautela. “La significatività statistica non è elevata e sarà necessario ottenere nuove osservazioni. L’origine biologica di DMS e DMDS è inferita unicamente sulla base del fatto che così succede sulla Terra, ma K2-18b è completamente diverso dal nostro pianeta.”
“È possibile che le estrapolazioni di quelle che sono biofirme certe per quello che concerne la loro presenza in atmosfere di pianeti di tipo terrestre non siano appropriate in questo caso”, ha continuato Sozzetti. “La possibile presenza di DMS e DMDS nella sua atmosfera deve quindi servire a stimolare nuove osservazioni, nonché lavoro teorico e di laboratorio per migliorare la nostra comprensione del possibile ventaglio di molecole che potrebbero veramente essere considerate robuste biofirme se rivelate nelle atmosfere di pianeti dalle proprietà significativamente diverse da quelle della nostra Terra.”
Infine, non siamo affatto sicuri che K2-18b sia veramente un mondo iceanico e quindi abitabile. Per il gruppo di Cambridge la composizione atmosferica del pianeta non si spiega in altro modo, ma non tutti i ricercatori sono d’accordo.
“È un passo avanti importante, ma queste analisi dipendono molto dalle ipotesi di partenza. Per esempio, il fatto che il pianeta sia davvero un mondo “iceanico”, cioè con acqua liquida e atmosfera di idrogeno: qualche mese fa un gruppo di ricerca della NASA ha mostrato che è possibile un’interpretazione alternativa, in cui il pianeta è un “mini-Nettuno” gassoso senza superficie abitabile”, spiega Amedeo Balbi, professore di astronomia e astrofisica all’Università di Roma Tor Vergata e ricercatore in astrobiologia. “Con i dati attuali, non è possibile stabilire quale delle due interpretazioni sia corretta, ma, se si propende per la spiegazione più semplice, quella del pianeta gassoso sembrerebbe più plausibile. Anche assumendo che il pianeta sia davvero iceanico e che la molecola identificata nello spettro sia il DMS, resta ancora la possibilità che essa sia prodotta attraverso meccanismi non biologici. Ma questa è una cosa che andrebbe investigata meglio in laboratorio, e per il momento non c’è una risposta chiara.”
In generale è improbabile che basti un singolo dato a dimostrare l’esistenza di vita su altri mondi. La storia dell’astrobiologia è disseminata di interpretazioni premature, dal meteorite marziana ALH84001 alla fosfina su Venere. A meno di sorprese è plausibile che, se mai otterremo evidenze concrete di vita extraterrestre, queste si accumuleranno gradatamente nel tempo, da un insieme di dati che via via escludono altre ipotesi, fino a lasciare la biologia come unica spiegazione. Non dobbiamo quindi aspettarci un singolo momento “eureka”, ma un quadro che diventa via via sempre più nitido. I dati raccolti da Nikku Madhusudhan e colleghi potrebbero essere ricordati in futuro come il primissimo tassello di questo mosaico, ma è ancora decisamente troppo presto per dirlo. La buona notizia è che cominciamo a valutare la possibilità di vita su mondi al di là del sistema solare con dati concreti in mano, e non solo tramite suggestioni e ipotesi. Anche se K2-18b si rivelasse disabitato si tratta quindi di un punto di partenza importante per la ricerca di vita nell’universo.