Chi ha avvelenato la terra a Bussi (PE) ora pagherà!

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Chi ha avvelenato la terra a Bussi (PE) ora pagherà!

Una sentenza condanna i manager ex Montedison per disastro colposo. Dagli Anni 70 la ex-Montedison ha sotterrato a 5 metri in sacchi sigillati ogni sorta di scarto chimico. Quasi certo l’avvelenamento delle falde freatiche
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Giustizia, stavolta, sarà fatta. Gli «eredi» di Montedison, l’azienda che dagli anni ’70 ha seppellito sotto la terra di questo angolo di Abruzzo 600-700 tonnellate di rifiuti industriali tossici, dovranno pagare quando comincerà il procedimento in sede civile. Condannati (anche se sono anziani e incensurati, e dunque non andranno certo in prigione) anche i dirigenti di Montedison, che contribuirono a interrare in una zona tra il fiume Tirino e il fiume Pescara 150-200 mila metri cubi di schifezze velenose, scoperte per caso nel 2007 dagli agenti della Forestale. Forse ci sarà il ricorso in Cassazione. Ma adesso la decisione della Corte d’Assise di Pescara – che ha ribaltato completamente la sentenza di assoluzione del primo grado condannando 10 dei 19 imputati per «avvelenamento colposo» (prescritto) «disastro colposo» (non prescritto) – apre la strada per l’avvio di una causa di risarcimento contro Edison. Edison da tempo ha abbandonato la chimica, e si occupa di energia, ma finirà nel mirino di salatissime richieste di risarcimento da parte di Stato, enti locali, ambientalisti, e persino della Solvay, l’azienda oggi proprietaria del sito. Un risarcimento che dovrebbe garantire che il territorio di Bussi sia completamente bonificato e ripristinato: un’operazione che potrebbe costare 1,8 miliardi di euro.

Insomma, stavolta chi inquina paga. Una decisione, quella dei magistrati pescaresi, che forse ha sorpreso Cristina Gerardis, l’avvocata dello Stato che ha sostenuto il ricorso contro la sentenza di primo grado. «Una sorpresa positiva, una splendida notizia per l’ambiente e per l’Abruzzo», commenta appassionata Gerardis, 44 anni, due figli, che da direttore generale della Regione Abruzzo ha indossato di nuovo la toga per incalzare in modo veemente – e soprattutto vincente – i 19 ex manager Montedison. Tutti pensionati e molto anziani, che sono stati un po’ usati come ostaggi dall’azienda ex-chimica per cercare di evitare il peggio. I loro avvocati – legali di chiara fama e dalle parcelle non certo alla portata di normali privati cittadini – hanno cercato invano di convincere la Corte che negli anni ’70 seppellire sotto terra gli scarti di lavorazione di un’industria chimica fosse cosa normale e accettabile. «Forse allora lo facevano tutti – spiega Cristina Gerardis – ma questo non significa che allora come oggi questo comportamento fosse lecito»

E soprattutto, che fosse un comportamento senza conseguenze per la salute e l’ambiente. Perché quando si sotterrano per anni tonnellate e tonnellate di diossina, cloroformio, tricloroetilene, mercurio e altre sostanze cancerogene a 5-6 metri di profondità, chiusi in sacchi di plastica con il logo Montedison, a un passo da fiumi e torrenti, le conseguenze sono inevitabili. Vengono avvelenate la falde acquifere, e dunque i fiumi, gli acquedotti, i campi coltivati, le persone. Secondo un’indagine del 2015 dell’Agenzia ambientale Arta, nei 56 campioni analizzati ci sono valori di diossina oltre 200 volte i limiti di legge. Secondo l’associazione ambientalista locale Forum H2O, considerando tutti i rifiuti interrati, potremmo essere in presenza di oltre un chilo di diossina. «Nell’ordine di grandezza di quanto accaduto nell’incidente di Seveso nel 1976», spiegano. Ma anche composti organici clorurati (con valori in alcuni casi molto elevati per quanto riguarda l’esacloroetano e il tetracloroetilene), idrocarburi policiclici aromatici, mercurio e piombo. Robe cancerogene e genotossiche.

Sono dieci anni che a Bussi si è a conoscenza di questo avvelenamento di massa, in un’area che ormai dal 1907 ospita impianti e fabbriche chimiche. Ma lo sanno anche a Roma, al ministero dell’Ambiente e in Parlamento: nel 2008 si è istituita ad hoc un’area Sin (Sito di interesse nazionale) per Bussi sul Tirino. In teoria le aree Sin poi vengono sottoposte a interventi di bonifica del suolo, del sottosuolo e delle acque superficiali e sotterranee per evitate danni ambientali e sanitari. Devono ricevere interventi anche con risorse pubbliche, oltre che usando quelle dei privati inquinatori. Ma a Bussi non si è mossa una foglia. Nessuna bonifica, ma neanche un registro dei tumori o una banca dati sulla salute della popolazione. «Con i quasi 4 milioni delle provvisionali a carico dei condannati – dice Gerardis – e la collaborazione del’Istituto Superiore di Sanità avvieremo una indagine epidemiologica sullo stato di salute delle 700mila persone che vivono qui». Sperando che – finalmente – si cominci a mettere mano alla bonifica.

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