Clima e coronavirus: il Covid-19 scomparirà da solo con il caldo? Purtroppo no
Il professor Marc Lipsitch smonta i miti sul coronavirus: i nuovi virus possono diffondersi anche oltre la stagione “normale”- Il climatologo Fazzini: «Il Coronavirus non terrebbe al momento conto delle variazioni climatologiche e dunque delle temperature»
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In diversi, compreso il solito presidente degli Usa Donald Trump, hanno detto che il coronavirus SARS-CoV-2 e la malattia che causa, COVID-19, scompariranno da soli nei prossimi mesi non appena arriverà il caldo nell’emisfero settentrionale e che sarebbe per questo che l’epidemia non si starebbe espandendo in Africa e nei Paesi tropicali, cosa subito smentita dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Ma altri continuano a dire che l’esperienza della SARS nel 2003 fornisce le prove che il virus sarebbe vulnerabile al caldo estivo.
La cosa non convince per niente Marc Lipsitch, professore di epidemiologia e direttore del Center for communicable disease dynamics dell’Harvard T.H. Chan School of public health, che ha detto: «Mentre possiamo aspettarci modesti declini nella contagiosità di SARS-CoV-2 in condizioni climatiche più calde e umide e forse con la chiusura delle scuole nelle regioni temperate dell’emisfero settentrionale, non è ragionevole aspettarsi che queste riduzioni da sole comportino una trasmissione lenta abbastanza per fare una big dent».
Anche secondo Massimiliano Fazzini, climatologo dell’università di Camerino e coordinatore del Gruppo di esperti sul “Rischio Climatico” della Società italiana di geologia ambientale (Sigea), «Il Coronavirus non terrebbe conto delle variazioni climatiche. Questo è il risultato di uno studio in costante evoluzione».

Si tratta di un studio è condotto da un gruppo multidisciplinare accademico e tecnico e alla Sigea spiegano che «Tra le differenti numerosissime variabili indipendenti che possono spiegare l’evoluzione della variabilità spazio–temporale del SARS-CoV-2 »non possono non essere analizzate quelle meteoclimatologiche ed ambientale». Fazzini aggiunge che «In particolare, da più parti si sono fatte svariate allusioni sull’incidenza della variabile temperatura evidenziando che il virus possa perdere di virulenza all’aumentare o al sensibile diminuire di tale parametro; alcuni divulgatori hanno curiosamente evidenziato che il virus morirebbe oltre i 27° C di temperatura. Ovviamente è quello che speriamo tutti. Da alcuni studi sembrerebbe che il virus possa avere una maggiore virulenza nel range termico esterno compreso tra 4 e 12° C e che “le temperature registrate in febbraio in WUHAN siano idonee alla proliferazione del virus” evidenziando poi che con l’aumento delle temperature procedendo con la stagione primaverile, le aree situate a latitudini maggiori potrebbero subire un incremento dei contagi. Però da approfondimenti che stiamo conducendo sembrerebbe che il Coronavirus non terrebbe conto delle variazioni climatiche. Di conseguenza è stato approntato uno studio climatologico finalizzato alla conferma di tali evidenze o supposizioni. I primi parziali risultati dell’analisi effettuate sull’epicentro della diffusione del virus: Wuhan e su alcune regioni estremamente fredde e calde del Globo oltre che nella Lombardia e nel Veneto, a partire dal 20 gennaio circa, focalizzando l’attenzione sui giorni di picco del segnale statistico considerando, come da recente letteratura scientifica, un tempo medio di incubazione di 5,5 giorni ±2 giorni». Fazzini dice che questo ha dimostrato che «Nell’area di Wuhan, l’intero mese di Febbraio ed in particolare la prima decade, nella quale si sono verificati i picchi epidemiologici, hanno evidenziato temperature costantemente oltre le medie climatiche (9,2° C la media mensile del mese contro i 5,8° C della media climatica riferita al trentennio 1971-2000) mentre le precipitazioni sono state complessivamente inferiori alle medie climatiche (36 mm Vs 52 mm). Evidentemente, non si tratterebbe di anomalie medie tali da poter in qualche modo amplificare il segnale epidemiologico occorso. Se poi si va ad analizzare l’andamento epidemiologico giornaliero con quello termico, ne deriva un coefficiente di correlazione pari a circa 0,11, dunque statisticamente insignificante. Quindi il quadro climatologico non ha influito in alcun modo sull’evoluzione del contagio. Ora, giunti al probabile termine del picco epidemiologico, non si osservano nuovamente anomalie termiche significative, tal ida poter eventualmente giustificare un rapido calo della virulenza dovuto al segnale termico».
