Scoperta a Pompei la “ricetta originale” del cemento romano
Le analisi di un cantiere rimasto intatto sotto le ceneri dell’eruzione del 79 d.C. hanno svelato i segreti di fabbricazione del cemento romano capace di durare millenni e di autoripararsi
di Leonardo De Cosmo
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Un cantiere abbandonato nell’eruzione del 79 d.C. svela i controversi segreti di fabbricazione del cemento romano capace di durare millenni e autoripararsi. Una scoperta pubblicata su “Nature Communications” che potrebbe avere grande impatto anche nel migliorare le tecniche di restauro.
“Dopo aver pubblicato il nostro lavoro in cui dimostravamo per la prima volta che il segreto del cemento romano era nel cosiddetto hot mixing, ossia la miscelazione di calce viva e pozzolana con l’acqua, mi hanno contattato da Pompei per mostrarmi qualcosa di incredibile”, ha spiegato Admir Masic, a capo del Laboratorio per la caratterizzazione multiscala e la progettazione dei materiali presso il Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Cambridge, negli Stati Uniti, che nel 2023 aveva svelato i segreti del cemento romano.
In quel controverso lavoro i ricercatori avevano messo in discussione quel che si era sempre creduto per 2000 anni e che veniva tramandato dalla principale fonte dell’epoca, il De architectura scritto da Vitruvio nel 15 a.C. Un testo unico del suo genere in cui si affermava che il cemento dell’epoca si realizzava mescolando la pozzolana con la calce “estinta”, ossia con calce già mescolata in precedenza all’acqua (dunque calce già idratata). Eppure, il lavoro del 2023 pubblicato su “Science Advances da Masic e colleghi, basato sull’analisi di campioni di cemento prelevati da alcune costruzioni romane del I secolo d.C. nel sito di Priverno, in provincia di Latina, contraddiceva quanto raccontato da Vitruvio. Secondo lo studio, quanto meno i costruttori romani di Priverno usavano invece l’hot mixing: proprio questa tecnica era in grado di spiegare la grande longevità al cemento romano e la sua capacità di autoripararsi nel tempo.
Lo strano errore di Vitruvio
“Quando sono arrivato a Pompei non potevo credere ai miei occhi: era stato ritrovato un cantiere edile abbandonato del 79 d.C. a causa dell’eruzione. Una visione per me commovente”, ha aggiunto Masic. “Nonostante fossi tra capolavori artistici incredibili io piangevo di gioia per dei cumuli di sabbia lì per terra, vicini a un muro lasciato a metà e ad attrezzi di lavoro abbandonati! Forse mi hanno preso per folle ma era un’occasione davvero unica per me.”
Una vera e propria capsula del tempo che permetteva di capire in modo inequivocabile, e in ogni dettaglio, le tecniche usate in edilizia nel I secolo d.C. Occasione unica per verificare se le intuizioni avute dalle analisi del cemento di Priverno corrispondessero al vero oppure scoprire che le tecniche edilizie del sito laziale fossero invece una sorta di unicità. Tra i vari cumuli di sabbia ritrovati a Pompei ce ne era persino uno con un buco, “pronto per versarvi l’acqua”, ha detto Masic. “Poggiato vicino anche uno strumento simile a una zappa usato proprio per fare il buco e per mescolare l’impasto.”
Le analisi, pubblicate ora su “Nature Communications”, hanno fornito facilmente la risposta: si trattava di cumuli di pozzolana miscelata con calce viva. Proprio la preparazione che la ricerca di Masic aveva ipotizzato due anni fa.
“Difficile dire perché nel testo di Vitruvio si dica altro ma quel che avevamo scoperto per la prima volta a Priverno e ora in modo inequivocabile a Pompei ci racconta che 100 anni dopo la pubblicazione del De architectura la tecnica era probabilmente evoluta” ha aggiunto il ricercatore. “Oppure non abbiamo ben capito cosa intendesse Vitruvio con calce estinta oppure il cemento a cui si riferisce era per altri tipi di utilizzi.”
Quel che è certo è che nel 79 d.C. a Pompei i muratori romani al momento dell’eruzione stavano usando la tecnica dell’hot mixing. Analisi e strumenti confermano infatti che univano calcare calcinato (calce viva) e cenere vulcanica (pozzolana) con acqua fredda. Unione che innesca una reazione chimica che libera calore e che porta alla formazione di piccoli grumi di calce, altamente reattivi. Frammenti che rimangono nel materiale e che, in presenza di acqua penetrata da eventuali crepe nel materiale, si ridisciolgono riempiendo le fessure e garantendo una sorta di proprietà autorigenerante tipica del cemento romano. “Di certo stavano usando l’hot mixing per realizzare un muro di sostegno”, ha chiarito Masic. “Usavano invece il metodo con la calce ‘spenta’ per realizzare malte per la finitura oppure per gli affreschi.”
Dai restauri alla riduzione di CO2
“Di rilevante in questi nostri studi c’è sicuramente l’essere riusciti a comprendere la ‘ricetta originale’ del cemento romano, una scoperta di valore storico ma che ha anche una valenza scientifica e tecnologica”, ha aggiunto Masic. Si tratta infatti di una tipologia di cemento estremamente longevo, capace di sopravvivere a terremoti, al degrado della pioggia, e persino sott’acqua. “Non vogliamo replicarlo ma possiamo certamente sfruttare alcune di queste conoscenza per migliorare le pratiche costruttive attuali”, ha sottolineato ancora Masic.

A partire dal ristretto ma comunque rilevante campo del restauro architettonico dei beni romani, dove la scoperta potrebbe innovare profondamente le attuali tecniche, ossia puntare a ripristinare gli edifici romani danneggiati con un cemento molto più fedele a quello originario. Fino al più vasto ambito dell’industria cementizia, dove le scoperte del gruppo di Masic si stanno dimostrando già da anni importanti soprattutto nella riduzione dell’impatto ambientale. Proprio la produzione di cemento è uno dei settori industriali più inquinanti del pianeta e introdurvi le scoperte derivate dal cemento romano possono dare un importante contributo.
“Il grande vantaggio è soprattutto quello di aumentare la durata temporale del cemento: costruzioni più durature si traduce banalmente in una riduzione della produzione del cemento”. E proprio sulla base di queste scoperte è nata alcuni anni fa una start-up italiana, DMAT, che oggi produce cemento autoriparante capace di abbattere di quasi il 50 per cento le emissioni di anidride carbonica. “Il nostro grande obiettivo è quello di riuscire a introdurre tante piccole innovazioni, come quelle intuite già dai romani, per arrivare a ridurre notevolmente e in pochi anni l’impatto dovuto alla produzione del cemento a livello globale”, ha concluso il ricercatore del MIT.