I TERREMOTI E IL MAREMOTO CHE SCOSSERO IL SALENTO NEL 1743

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I TERREMOTI E IL MAREMOTO CHE SCOSSERO IL SALENTO NEL 1743

di Daniele Perrone
tratto da bistrocharbonnier.altervista.org

terremoto1743Il 20 febbraio del 1743 è una data che non passò indifferente alle cronache locali del Salento. In questo triste giorno si ebbe un violento terremoto con epicentro nel Canale d’Otranto, a soli 50 km dalla costa salentina, e con una intensità riconducibile ad una magnitudo compresa tra 6 e 7 gradi della scala Richter.

Questo del 1743 è un fenomeno tellurico complesso, percepito come una sequenza di tre violente scosse, prodotte probabilmente dall’attivazione di diversi segmenti di faglia.

Alcuni studiosi suppongono che queste scosse generarono un forte tsunami che si abbatté su entrambe le sponde del canale d’Otranto. Tuttavia, i danni registrati nei centri abitati e la perdita di vite umane in Italia – e non solo – sono ben documentate dai racconti folkloristici e dagli atti notarili. In Italia le maggiori distruzioni si ebbero nel Salento, in particolare a Nardò e a Francavilla Fontana. Ma non fu risparmiata nemmeno Amaxichi, una località dell’isola di  Lefkada (isole ionie) in Grecia.

Le scosse furono anche avvertite in diverse aree dell’Italia e del Mediterraneo, come a Messina, Napoli, Roma, l’isola di Malta, tutta la costa albanese e persino in alcune città della pianura padana (ad est del Peloponneso).

Analizziamo ora i due principali aspetti, ovvero lo tsnuami e il terremoto,  descrivendo non solo i racconti folkloristici, le tradizioni mistiche e le credenze, ma cercando anche di individuare le cause tecnico-scientifiche che determinarono gli eventi di quel famoso 20 febbraio.

IL MAREMOTO SULLE COSTE DEL SALENTO

L’unica testimonianza storica certa relativa al maremoto la si trova solo negli archivi storici di Brindisi, in cui si segnalava un repentino e sensibile abbassamento del livello del mare nel porto della città.

La mancanza di ulteriori documentazioni storiche è dovuta probabilmente al fatto che l’area costiera interessata direttamente dal fenomeno – cioè, quella compresa tra Brindisi e Santa Maria di Leuca – all’epoca era quasi disabitata per via delle numerose paludi, ad esclusione ovviamente dei borghi di Otranto, di Castro e di Santa Maria di Leuca.

A tal riguardo, un’interessante intervista fatta su MeteoWeb dal geologo Giampiero Petrucci al Prof. Paolo Sansò – docente di Geografia Fisica e Geomorfologia presso l’Università del Salento – svela importanti risultati ottenuti da accurate analisi e ricerche. Si riportano qui di seguito i passaggi fondamentali dell’intervista:

Dal punto di vista sismotettonico come è stato interpretato questo evento?

“La Puglia meridionale può essere senz’altro considerata un’area a bassa sismicità. Ciò nonostante essa avverte in maniera sensibile gli eventi sismici con epicentro lungo la costa albanese e in prossimità delle isole Ionie (per es. l’evento del 27 agosto 1886) o ancora più lontano, dell’isola di Creta (evento del 16 febbraio 1810). Meno avvertiti sono i terremoti con epicentro in corrispondenza dell’area appenninica, del Tavoliere e del Gargano. In questo quadro l’evento sismico del 1743 è abbastanza singolare poiché l’epicentro è situato in mare e a tutt’oggi non si conosce la struttura tettonica responsabile di questo forte terremoto. Un’analisi degli effetti di questo sisma permette infatti di stimare una intensità del VIII-IX grado della scala MCS che può essere riconducibile ad una magnitudo compresa tra 6 e 7 gradi della scala Richter”.

Relativamente al terremoto del 1743 è dunque confermato che fu seguito da uno tsunami?

“La risposta a questa domanda è scritta nel paesaggio costiero a sud di Otranto, in corrispondenza di Torre Sant’Emiliano. In questa località abbiamo individuato e studiato un accumulo costituito da centinaia di blocchi calcarei di grosse dimensioni. Il più grande di questi blocchi ha dimensioni di 5×3.5×1.5 m e pesa circa 70 tonnellate. Il rilievo di dettaglio ha rivelato che l’accumulo è costituito da due cordoni di blocchi giustapposti, costituito da elementi embriciati ad indicare univocamente una direzione di provenienza dell’onda da SE-SSE. L’accumulo raggiunge la quota massima di 11 m in corrispondenza della cresta del cordone verso mare; i blocchi più interni sono stati trasportati ad oltre 80 m dalla linea di riva e abbandonati su di una superficie terrazzata posta a 8 metri di quota. La datazione dell’accumulo è stata realizzata mediante analisi con il radiocarbonio su piccole conchiglie marine ritrovate tra i blocchi e confermata da resti di ceramica rinvenuti nel suolo al di sotto di un grosso blocco posto al margine interno dell’accumulo. In sintesi, i dati indicano che il distacco, trasporto e deposito dei blocchi è stato prodotto circa tre secoli fa da almeno due onde di maremoto successive provenienti da SE-SSE. La quota massima raggiunta dal maremoto è di almeno 11 m. Ricerche ulteriori lungo il litorale brindisino hanno permesso di individuare gli effetti di questo maremoto anche a Torre Santa Sabina, una località a nord di Brindisi. Qui la quota massima raggiunta dal maremoto sarebbe stata di soli 1.5 metri. I dati cronologici e geomorfologici  confermerebbero quindi l’attribuzione di questo maremoto all’evento sismico del 1743 che ha avuto il suo epicentro poche decine di chilometri a SE di Otranto”.

Ma se vi fu effettivamente uno tsunami così intenso, capace di spostare massi di 70 tonnellate e con run-up di 10-11 metri, perché non vi sono tracce storiche e letterarie di questo evento?

“La mancanza di documentazione storica non deve meravigliare se si considera che l’area costiera compresa tra Brindisi e Santa Maria di Leuca, quella interessata direttamente dal fenomeno, all’epoca era completamente disabitata per via delle numerosi paludi costiere e della malaria, ad esclusione del piccolo borgo di Otranto. Inoltre la morfologia della costa, costituita prevalentemente da ripide coste rocciose, nonostante un run-up così elevato, ha determinato l’inondazione di una fascia litoranea molto ristretta. Ultimo elemento da tenere presente è che gli tsunami si propagano molto male nel Mediterraneo a causa della elevata irregolarità batimetrica dei fondali e dell’elevata frastagliatura della linea di costa: ciò probabilmente spiega come gli effetti più evidenti si trovino solo sulla costa immediatamente prospiciente l’epicentro”.

02 – Blocco di pietra di 70 tonnellate ritrovato presso Torre S Emiliano

IL TERREMOTO DELL’ENTROTERRA

A differenza della costa, l’entroterra è tuttora ricco – anche se non troppo – di documentazioni dell’epoca e di racconti che parlano della vicenda. L’evento è descritto in alcune centinaia di documenti storici, da cui si attesta che furono oltre 85 le località interessate.

Importanti danni si verificarono nelle località costiere di Otranto e di Brindisi, ma nemmeno Taranto e Bari furono risparmiate. A Brindisi, oltre allo tsunami che si abbatté sul porto, la cattedrale fu lesionata e in seguito crollò.

Altri danni ingenti si verificarono a Sava (al Santuario della Madonna di Pasano), a Maruggio (alla Chiesa Madre, con il rosone completamente distrutto), a Lizzano (in buona parte del centro storico e al Castello marchesale, che subì una forte inclinazione), a Manduria, a Carosino (alla Chiesa di Santa Maria delle Grazie), a Parabita (alla Chiesa di Maria SS.ma dell’Umiltà, che subì forti lesioni), a Galatina, a Gallipoli, a Leverano, a Guagnano (con danni gravi alla Chiesa Matrice) e a Salice Salentino (con il crollo del soffitto della Chiesa di Santa Maria Assunta). Molti comuni, inoltre, oltre alla conta dei danni, dovettero censire anche le proprie vittime.

L’apice della potenza distruttiva, almeno sulla base delle morti censite, si ebbe in due centri in particolare: ovvero a Francavilla Fontana e, soprattutto, a Nardò. Proprio per questo motivo, l’evento in questione è noto anche come terremoto di Nardò. Gli storici documentano che la maggior parte degli edifici neretini furono danneggiati o totalmente rasi al suolo; secondo il notaio regio ed apostolico Oronzo Ipazio De Carlo il danno in città ammontava “ad un milione, cento, settanta, cinque mila Ducati”. Il numero esatto delle vittime resta tuttavia un mistero: secondo il notaio De Carlo si ebbero 228 morti e 400 infortunati gravi, il Liber mortuorum della chiesa cattedrale neretina parla invece di 112 vittime, altre fonti ancora parlano invece di 150 morti nella sola Nardò e di 180 totali in tutta la Puglia.

Si ritenne tuttavia che il numero di vittime fu comunque basso a fronte dell’intensità del sisma, tanto che in quasi ogni comunità si volle credere alla protezione dei propri Santi Protettori. Si rafforzò da qui, quindi, quello stretto legame folkloristico e religioso tra molte popolazioni salentine e la devozione a figure spirituali e a Santi Patroni.

A Nardò, ad esempio, nacque la ricorrenza del 20 febbraio in devozione a San Gregorio Armeno che si celebra ogni anno. Secondo la credenza popolare, si attribuisce al Santo il miracolo di aver salvato gran parte della cittadinanza. La leggenda narra che la statua di San Gregorio Armeno, posta sulla sommità del sedile cittadino di Piazza Salandra, abbia ruotato verso ponente – direzione dell’epicentro – per sedare appunto il catastrofico sisma.

Una cronaca di questo evento la si trova negli atti notarili del notaio De Carlo:

“[…] Nel giorno venti di febbraro mille, settecento, quaranta, trè, giorno di mercoledì a ore ventitré e mezzo correndo la sesta indizione, e la domenica di sesta cresima, successe un ferissimo tremuoto, che durò secondo la comune, sette minuti, e rovinò dalle fondamenta la Città di Nardò senza che fusse rimasta abitazione alcuna che no fosse ruinata […] padre V. Gregorio Armeno, la di cui statoa di lecciso esisteva sopra il pubblico sedile nella piazza nell’atto, che la terra vi scoteva, invocato dal popolo scivolò visibilmente verso ponente, dà dove vi sorse il detto tremuto, e con la mano, e la mano che prima steva in atto di benedire, ora si vede tutta aperta ed in atto, che impedisce il travello. E continuò a star voltata verso il detto vento di ponente. Avendo perduto la mitra, che era tirata à tutto un pezzo con la statoa, ma no già lo pastorale. Cascarono poi le statoe di S. Michele e S. Antonio, che tenevano in mezzo detta statoa di esso San Gregorio”

Sedile di Nardò, particolare del prospetto con la statua del protettore S. Gregorio Armeno e dei due comprotettori, S. Antonio da Padova e S. Michele Arcangelo.

Anche la devozione di Lecce per Sant’Oronzo è legata alla protezione dal terremoto. In quel 20 febbraio, Lecce infatti non subì alcun danno. Consapevoli del pericolo scampato, i leccesi, già devoti alla figura di Sant’Oronzo, gridarono fin da subito al miracolo.

In seguito all’evento nacquero diversi affreschi e dipinti in suo onore. Il più importante è situato all’interno della chiesa di Santa Croce e raffigura il Santo in volo sulla città di Lecce, come segno di protezione. Nella parte inferiore del dipinto è stata inoltre incisa una scritta in dialetto leccese che cita:

-1743 –

FOI S. RONZU CI NI LEBERAU

DE LU GRA TERRAMOTU,

CI FACIU A BINTI DE FREBARU, TREMULAULA CETATE,

NU PIEZZU E NO CADIU.

IDDU DE CELULA GUARDAU,

E NUDDU DELA GENTE

NDE PATIU.

E’ RANDE SANTU!

MA DE LI SANTUNI FACE RAZIE,

E MIRACULI A MIGLIUNI.

Restando sempre a Lecce, una cronaca del 1759 racconta dell’istituzione – a distanza quindi di qualche anno –  della celebrazione del 20 febbraio in ricordo di quella vicenda:

“[…] Nel 1759 a 20 febbraro si cantò la prima messa con officio proprio del santo, essendosi ciò ottenuto dopo molti anni per breve della Sagra Congregazione […]”

nome dell'ufficioA Mesagne si rende ancora oggi omaggio con solenni festeggiamenti alla Beata Vergine del Carmelo, già patrona della città dal 1652, che avrebbe preservato la popolazione da lutti e distruzioni. Dagli atti notarili dell’epoca (del notar Francesco Paolo Zambelli e del notar Francesco Passante Dello Diaco), si deduce infatti che a subire i danni maggiori furono solo gli edifici più vecchi ed instabili.

Senza soffermarci troppo sulle varie usanze locali, si può comunque affermare che le memorie del terremoto correlate al culto dei Santi sussistono in numerosi centri del Salento: a Brindisi si svolgeva la processione dell’Immacolata, a Latiano si effettuano sacre funzioni ricordando l’intervento miracoloso di Santa Margherita, ad Oria si ringrazia San Barsanofrio con una processione e, così, a Manduria, a Campi Salentina, ecc.

Ma lasciando da parte l’aspetto mistico, sembra che in seguito a quell’evento, le tecniche costruttive degli edifici nel Salento subirono importanti modifiche. Il terremoto, d’ora in poi, avrebbe rappresentato un importante spartiacque per l’architettura e per la regola d’arte costruttiva locale.

Cerchiamo ora di analizzare il sisma in questione secondo un approccio più tecnico – scientifico.

Nonostante ci siano stati danni notevoli, il territorio salentino è oggi classificato come “Zona 4”, ovvero a basso rischio sismico (INGV – Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia), ad eccezione ovviamente dell’area a mare del Canale d’Otranto.

Le norme vigenti individuano, come parametro atto a definire il terremoto, l’accelerazione orizzontale massima che questo produce nel substrato del terreno (con probabilità di accadimento del 10% in 50 anni). Non essendosi verificati eventi sismici importanti negli ultimi 271 anni, il Salento occupa pertanto il gradino più basso in termini di pericolosità sismica.

Tenendo conto della probabilità di accadimento (in un determinato periodo di ritorno), il territorio nazionale è stato suddiviso in quattro zone a seconda della pericolosità e, per ciascuna di esse, è stata assunta come accelerazione di progetto l’estremo superiore del valore dell’intervallo di definizione: per la Zona 1 è pari a 0.35g, per la Zona 2 è pari a 0.25g, per la Zona 3 è pari a 0.15g, per la Zona 4 è pari a 0.05g (dove g è l’accelerazione di gravità). Tali accelerazioni considerano tuttavia delle condizioni standard semplificative: terreno con ottime proprietà meccaniche, area pianeggiante e libera da ostacoli.


Tutti i territori, però, presentano svariate proprietà di zona in zona. Per questo motivo sono nati dei parametri di “Microzonazione sismica” che amplificano queste accelerazioni tenendo conto della topografia del luogo, dell’eventuale presenza di ostacoli e dei diversi tipi di terreno (formazioni litoidi, depositi argillosi, ghiaiosi, sabbiosi, strati alluvionali).

È proprio in queste differenze che si devono ricercare gli effetti del terremoto del 20 febbraio 1743. Da come è facile notare, tra tutti centri abitati citati in precedenza, pochi di essi appartengono all’area del basso Salento o della Grecìa, pur trovandosi geograficamente più vicini all’epicentro. Perfino la stessa Lecce, che occupa un ruolo geografico centrale, fu risparmiata da questo evento.

La risposta risiede proprio nella geomorfologia del Salento. L’alternanza tra terrazzamenti più alti (horst), caratterizzati da strati rocciosi affioranti, e di terrazzamenti più bassi (graben), solitamente ricoperti da depositi alluvionali sciolti, è molto frequente nel territorio salentino, specie nella fascia che si sviluppa ad Ovest dell’allineamento Lecce – Corigliano d’Otranto – Castiglione d’Otranto (in cui sono situati, appunto, Nardò ed altri centri che hanno registrato maggiori danni). Fin dal Paleogene, le forze esercitate dalla tettonica hanno influito molto in termini di fessurazione della roccia e in formazioni di faglie. Questa caratteristica ha garantito – e continua a garantire – una buona dispersione delle onde sismiche trasversali (dette anche Onde S o “di Taglio”), che si propagano attraverso le fessure del terreno e non rilasciando elevate quantità di energia.

Lo stesso discorso, però, non vale in presenza di depositi alluvionali, di terreni sciolti o mal stratificati. In presenza di queste condizioni, infatti, l’onda sismica trova davanti a se un vero e proprio ostacolo alla sua propagazione, sprigionando tutta la sua energia. Tale effetto può essere talvolta amplificato da eventuali effetti di risonanza, specie nelle condizioni in cui si verifica un caso di “risposta sismica locale”.

06 - Horst e GrabenLa risposta sismica locale è una particolare condizione in cui avviene lo scuotimento di un terreno con basse proprietà meccaniche, “soft clay” (solitamente terreni sciolti, piane alluvionali, argillose, sabbiose e mal stratificate), delimitato o circondato da terreni con buone proprietà meccaniche o di roccia dura, “hard soil”. Per rendere ancora più chiara l’idea, questa particolare condizione è simile allo scuotimento di una bacinella contenente acqua, dove le pareti della bacinella – essendo rigide – restano immutate, mentre l’acqua al suo interno oscilla. È proprio questo il fenomeno che ha caratterizzato la quasi distruzione di Nardò, mentre gli altri centri – compresa la vicina Galatone – mostravano al massimo lievi danni.

07 - RSL

Il primo a dare impulso alla sismologia del Salento fu il famoso scienziato salentino Cosimo De Giorgi (1898). Come diceva De Giorgi, la quasi distruzione del centro di Nardò va ricercata proprio nella sua natura geologica, perché “si tratta di più banchi sovrapposti di rocce incoerenti (argille e sabbie) intercalati da altri di rocce con cemento (sabbioni calcarei)”.

Ad aggravare ulteriormente la sua situazione, vi è anche la presenza della cosiddetta “Formazione di Galatone”, un complesso di depositi calcarenitici, di calcari dolomitici, di marne e di argille siltose con buone proprietà meccaniche che “circondano” totalmente il deposito di “soft clay” su cui poggia il centro abitato di Nardò. Ad avvalorare questa tesi di risposta sismica locale, vi è anche il contributo del CNR-IRPI, con gli atti del convegno “Possibile effetto di amplificazione sismica causato dalla Formazione di Galatone” del 2009

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