L’Antropocene avanza inesorabile: la plastica è già nelle rocce

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L’Antropocene avanza inesorabile: la plastica è già nelle rocce

I processi geologici hanno iniziato a incorporare in rocce litoranee la plastica finita in mare. Questo materiale onnipresente è sempre di più un marcatore dell’era segnata dalle attività umane
di Davide Michielin
www.lescienze.it

Dalla sua invenzione, la plastica è stata una compagna inseparabile dell’umanità, nonché l’artefice del suo sviluppo in virtù di alcune caratteristiche straordinarie. Prima tra tutte la capacità di acquisire e conservare qualsiasi forma. Ma non solo: la plastica è economica, leggera, colorabile, idrorepellente, resistente alla corrosione e isolante. Un materiale quasi perfetto e soprattutto democratico, che ha cambiato per sempre la nostra vita. In meglio. Dai vestiti alle bottiglie, passando per cosmetici, penne, smartphone e imballaggi, viviamo letteralmente immersi in un mondo di plastica, formato da una moltitudine di oggetti dalla vita effimera.

Eppure, la durata del loro utilizzo è inversamente proporzionale al tempo in cui i frammenti che progressivamente rilasciano, persistono e si accumulano nell’ambiente, soprattutto negli oceani. Non deve perciò stupire che in questi ambienti possano finire inclusi nei processi geologici che plasmeranno le rocce del futuro: secondo il gruppo di lavoro istituito dalla Commissione internazionale di stratigrafia, la plastica è uno dei possibili marcatori dell’Antropocene, l’epoca del pianeta forgiata dall’uomo.

Un nuovo studio, pubblicato su “Science of the Total Environment” da ricercatori del Marine and Environment Sciences Centre a Madeira (MARE), dimostra come questo processo sia già in atto. Durante il monitoraggio del 2016 della costa meridionale dell’isola portoghese, il gruppo coordinato dall’ecologo marino Ignacio Gestoso si era imbattuto in alcune incrostazioni insolite. Rinvenute sulla superficie di alcune rocce del piano mesolitoraneo – la zona compresa tra le linee di alta e bassa marea – queste sottili pellicole di colore ceruleo avevano una consistenza simile a quella di una gomma da masticare incollata al marciapiede.

Di per sé l’evento non aveva destato particolare apprensione: i ricercatori si erano limitati a documentarne l’avvistamento, considerandolo un caso isolato. Tuttavia, due anni più tardi, le incrostazioni si erano estese, coprendo quasi il dieci per cento della superficie esaminata, e inoltre ne erano apparse di colori differenti. Le analisi chimiche hanno rivelato che queste pellicole sono composte da polietilene, una delle materie plastiche più semplici e diffuse, usata non solo nell’edilizia ma anche per produrre buste, flaconi e i tappi delle onnipresenti bottigliette in PET.

“Non possiamo che prenderne amaramente atto: la plastica sta entrando nell’ambiente geologico e caratterizzerà la stratigrafia dell’Antropocene. La nostra impronta si può notare già oggi nei luoghi in cui il tasso di accumulo dei sedimenti è elevato, come per esempio i delta dei fiumi”, dice a “Le Scienze” Angelo Camerlenghi, direttore della sezione di geofisica dell’Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale (OGS). Anche se i ricercatori portoghesi notano che nel tratto di costa in esame la presenza di detriti di plastica è abbondante, la formazione di questo inedito inquinamento da plastica rimane incerto. “È possibile che il moto ondoso, unito alla luce solare, abbia innescato rapide trasformazioni chimiche e biochimiche nei frammenti di plastica depositati sulla superficie delle rocce”, ipotizza Camerlenghi, sottolineando la novità del fenomeno ma anche la sua sconfortante prevedibilità.


Le incrostazioni di Madeira non rappresentano la prima intrusione della plastica nel regno minerale. Già nel 2014 Patricia Corcoran, docente di petrologia sedimentaria all’University of Western Ontario, aveva annunciato su “GSA Today”, rivista della Geological Society of America,  il rinvenimento nelle spiagge delle Hawaii di una roccia inedita: un conglomerato formato da frammenti di lava basaltica, sabbia, detriti organici e plastica fusa.

“Non bisogna cadere nella tentazione di dare per risolto il problema dei rifiuti non appena vengono sepolti nel suolo oppure negli abissi”, riprende Camerlenghi. “Il sottosuolo, sia marino che terrestre, è un ambiente molto più dinamico di quanto si creda, anche dal punto di vista biologico e microbiologico. Ci sono importanti circolazioni di fluidi che producono alterazioni chimiche importanti dei sedimenti e delle rocce, e che quindi possono interessare anche i rifiuti sepolti, trasportando altrove i prodotti tossici della loro alterazione.”
Non a caso, le preoccupazioni degli ecologi del MARE riguardano gli effetti a lungo termine delle incrostazioni di plastica sulla microfauna che abita questi ambienti, come patelle e balani, ma anche altri invertebrati che perlustrano le pellicole batteriche presenti sulle rocce, nutrendosi di alghe e diatomee. Uno studio preliminare sulla lumaca di mare Tectarius striatus ha rivelato che l’abbondanza di questi molluschi sulle incrostazioni di plastica è paragonabile a quella osservata sulle rocce circostanti. Il timore degli autori, supportato da esperimenti in laboratorio condotti su una specie affine, è che questi molluschi non siano in grado di individuare le microplastiche, finendo così per ingerirle insieme alle alghe.

Le conseguenze di questo inquinamento pulviscolare non riguardano solo le lumache di mare. Un numero crescente di studi ha dimostrato la dannosità delle microplastiche in oltre un centinaio di organismi acquatici: aumento della mortalità, infertilità, intersessualità, indebolimento delle barriere protettive e altro ancora. Scambiate per cibo e dunque ingerite, le microplastiche si accumulano inoltre nei tessuti degli organismi. E poiché pesce grande mangia pesce piccolo, la concentrazione dei composti tossici associati alla plastica per migliorarne le proprietà – come gli ftalati per aumentarne la malleabilità o alcuni metalli pesanti usati nelle vernici – aumenta a ogni anello della catena alimentare.


Inoltre, dato l’elevato rapporto tra superficie e volume, questi microscopici frammenti finiscono per concentrare vari tipi di contaminanti idrofobici presenti nell’acqua, tra i quali idrocarburi aromatici policiclici, policlorobifenili e pesticidi. Alcune di queste sostanze sono cancerogene, altre sono interferenti endocrini, cioè alterano la normale secrezione degli ormoni. Una volta ingerito, questo cocktail di sostanze tossiche può dissociarsi dalle microplastiche e migrare nei tessuti degli organismi. Fino a raggiungere il nostro piatto, con conseguenze sconosciute: a oggi non esistono prove che le microplastiche abbiano effetti nocivi sulla salute umana. Ma non è possibile neppure sostenere il contrario.

La plastica e i suoi additivi agiscono in modo differente in contesti chimico-fisici e organismi differenti. Inoltre, è davvero difficile stabilire quante delle microplastiche presenti nel nostro organismo provengano da pesci, molluschi e crostacei: queste sostanze sono presenti anche nell’aria che respiriamo, nell’acqua imbottigliata e persino in quella di rubinetto, nella carne e nel miele, oltre che nei nostri vestiti.

Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), è probabile che le persone ingeriscano dai prodotti del mare quantità trascurabili di microplastiche: un rischio tollerabile, specie se contrapposto agli enormi benefici apportati da una dieta ricca di pesce. In realtà, del loro comportamento ne sappiamo ancora troppo poco: il 60 per cento della letteratura scientifica sull’argomento si concentra negli ultimi quindici anni. Non a caso, il suggerimento della commissione formata dalle Nazioni Unite per analizzare il problema è adottare il principio di precauzione, per quanto riguarda la sicurezza alimentare e la salute umana, nel consumo dei prodotti ittici. Dalle spiagge di Madeira alla dieta, la plastica rimane un invadente protagonista tanto del presente quanto del futuro dell’intero pianeta. Che resti impressa o meno nella memoria geologica.

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