Stiamo cercando il primo vagito dell’universo

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Stiamo cercando il primo vagito dell’universo

Nelle regioni più remote del mondo stanno nascendo radiotelescopi sempre più sensibili: serviranno a catturare la sfuggente riga nello spettro dell’idrogeno che permetterà di ricostruire la mappa dell’universo primordiale
di Davide Castelvecchi/Nature
www.lescienze.it

Per avere un’idea dell’aspetto che ha l’universo dalla prospettiva terrestre, immaginate un grosso cocomero. La nostra galassia, la Via Lattea, è uno dei semi al centro del frutto. Lo spazio circostante, cioè la polpa rossa, è cosparso di innumerevoli altri semi. Si tratta di altre galassie, che noi – vivendo al centro di quel seme – possiamo osservare con i telescopi.

Dato che la luce viaggia a velocità finita, vediamo le altre galassie come erano in passato. I semi più lontani dal centro del cocomero sono le galassie più antiche viste finora, che risalgono a quando l’universo aveva solo un trentesimo della sua età attuale, 13,8 miliardi di anni.

Andando oltre, nel sottile strato verde della buccia del cocomero, si trova qualcosa di primordiale, che precede l’epoca delle stelle. Questo strato rappresenta l’universo quando aveva solo 380.000 anni ed era ancora un brodo caldo e luminoso di particelle subatomiche. Sappiamo qualcosa di quel periodo perché la sua luce ondeggia ancora nello spazio, anche se in questo tempo interminabile si è allungata al punto da aver assunto la forma di un debole bagliore di radiazione a microonde.

La parte più misteriosa dell’universo osservabile è un altro strato del cocomero: la striscia tra la buccia verde e la polpa rossa. Rappresenta il primo miliardo di anni nella storia dell’universo, e gli astronomi hanno visto pochissimo di questo periodo, tranne alcune galassie molto luminose e qualche altro oggetto.

Rappresentazione della linea temporale dell’universo (N.R.Fuller, National Science Foundation)

Eppure quello è il periodo in cui l’universo subì i suoi cambiamenti più spettacolari. Conosciamo il risultato finale di quella transizione – d’altronde siamo qua – ma non le sue modalità. Come e quando si formarono le prime stelle, e che aspetto avevano? Quale fu il ruolo dei buchi neri nella formazione delle galassie? E quali caratteristiche ha la materia oscura, che ha una massa molto maggiore di quella ordinaria e si ritiene abbia influenzato in modo critico l’evoluzione dell’universo?

Oggi un esercito di progetti di radioastronomia, grandi e piccoli, sta cercando di mappare questa terra incognita. Gli astronomi hanno una semplice fonte di informazioni: una sola lunghezza d’onda isolata, emessa e assorbita dagli atomi di idrogeno, l’elemento che dopo il big bang costituiva quasi tutta la materia ordinaria. L’impegno per rilevare questo segnale impercettibile – una riga nello spettro dell’idrogeno con una lunghezza d’onda di 21 centimetri – sta portando gli astronomi a ricorrere a osservatori sempre più sensibili allestiti in alcuni dei posti più sperduti al mondo, tra cui una zattera isolata in mezzo a un lago nell’altopiano del Tibet e un’isola nell’Artide canadese.

L’anno scorso l’Experiment to Detect the Global Epoch of Reionization Signature (EDGES), un’antenna davvero molto semplice in una remota località semidesertica dell’Australia, potrebbe avere visto il primo indizio della presenza di idrogeno primordiale intorno alle prime stelle. Oggi altri esperimenti sono sul punto di raggiungere la sensibilità necessaria per cominciare a mappare in 3D l’idrogeno primordiale, e quindi l’universo più antico. Adesso è questa “l’ultima frontiera della cosmologia”, commenta Avi Loeb, astrofisico teorico allo Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics (CfA) a Cambridge, in Massachusetts: nasconde la chiave per rivelare come una massa indistinta e uniforme di particelle si sia evoluta formando stelle, galassie e pianeti. “Appartiene alla storia della nostra genesi, alle nostre radici”, commenta Loeb.

Una riga sottile
Circa 380.000 anni dopo il big bang, l’universo si era espanso e raffreddato abbastanza perché il suo brodo, composto per lo più da protoni ed elettroni, cominciasse a formare gli atomi. All’epoca la materia ordinaria era costituita soprattutto da idrogeno, che però non emette né assorbe fotoni nella massima parte dello spettro elettromagnetico. Di conseguenza è per lo più invisibile.

Raffigurazione dell’epoca di formazione delle prime stelle, incastonate in filamenti gassosi, con la radiazione di fondo a microonde ai margini dell’illustrazione (N.R.Fuller, National Science Foundation)

Ma il singolo elettrone dell’idrogeno rappresenta un’eccezione: quando il suo spin passa dall’orientamento in una direzione all’altra, emette o assorbe un fotone. I due stati hanno un’energia quasi identica, quindi la differenza determinata dal fotone è piuttosto piccola. Perciò il fotone ha una frequenza elettromagnetica relativamente bassa, ossia una lunghezza d’onda piuttosto elevata: poco più di 21 centimetri.

È stata questa firma dell’idrogeno, negli anni cinquanta, a rivelare la struttura a spirale della Via Lattea. Verso la fine degli anni sessanta il cosmologo sovietico Rashid Sunyaev, oggi al Max Planck Institut per l’astrofisica a Garching, Germania, fu tra i primi ricercatori a capire che la riga si poteva usare anche per studiare il cosmo primordiale. Questi fotoni a 21 centimetri, allungati o spostati verso il rosso dall’espansione dell’universo, oggi avrebbero una lunghezza d’onda compresa tra 1,5 e 20 metri circa, corrispondenti a 15-200 megahertz (MHz).

Sunyaev e il suo mentore, il defunto Yakov Zeldovich, pensarono di usare il segnale dell’idrogeno primordiale per testare alcune delle prime teorie sulla formazione delle galassie. Ma, racconta Sunyaev a “Nature”, “quando ne ho parlato con alcuni radioastronomi mi hanno detto: Rashid, sei pazzo! Non riusciremo mai a osservarlo”.

Il problema era che la riga dell’idrogeno, spostata verso il rosso più profondo nello spettro delle onde radio, era così debole che sembrava impossibile isolarla dalla cacofonia di segnali in radiofrequenza emanati dalla Via Lattea e dalle attività umane, comprese le stazioni radio FM e le candele delle auto.

Per tre decenni l’idea di mappare l’universo primordiale con fotoni a 21 centimetri ha ricevuto attenzione solo in modo sporadico, ma adesso, grazie ai progressi tecnologici degli ultimi anni, la tecnica sembra più realizzabile.

I principi del radiorilevamento sono invariati; molti radiotelescopi sono costituiti da materiali semplici, come tubi in plastica e rete metallica, ma la capacità di elaborare i segnali è molto migliorata. Normali componenti per l’elettronica di consumo, sviluppati all’inizio per videogiochi e telefoni cellulari, ora permettono agli osservatori di macinare enormi quantità di dati con investimenti abbastanza piccoli. Nel frattempo i cosmologi teorici hanno mostrato in modo più convincente di credere alla promessa della cosmologia a 21 centimetri.

Buio e alba
Poco dopo la formazione degli atomi di idrogeno successiva al big bang, l’unica luce del cosmo era quella che oggi raggiunge la Terra sotto forma di una debole radiazione con lunghezza d’onda elevata, proveniente da tutte le direzioni: questo segnale prende il nome di radiazione cosmica di fondo a microonde (CMB). Circa 14 miliardi di anni fa, questa luce residua del big bang sarebbe apparsa a un occhio umano di un colore arancione uniforme. Poi il cielo deve essere diventato rosso, prima di oscurarsi lentamente fino al buio completo; d’altronde non c’era nient’altro che potesse produrre luce visibile, perché le lunghezze d’onda della radiazione di fondo continuavano ad allungarsi nello spettro dell’infrarosso e oltre. I cosmologi chiamano questo periodo “secoli bui”.

I teorici ritengono che, nel corso del tempo, l’universo… L’ARTICOLO CONTINUA QUI

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