Un mondo più caldo favorisce la diffusione delle nuove malattie

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Un mondo più caldo favorisce la diffusione delle nuove malattie

L’innalzamento delle temperature, insieme allo spostamento delle specie verso nuove aree, potrebbe cambiare i rapporti tra gli agenti patogeni, i loro ospiti intermedi e i meccanismi di difesa del corpo umano, annullando la barriera termica della febbre e indebolendo il sistema immunitario
di Sara Goudarzi/Scientific American
www.lescienze.it

Gli scienziati osservano da tempo che la crescita delle temperature medie globali sta provocando l’espansione verso nuove aree di varie malattie infettive, come malaria e dengue, perché gli animali che le trasmettono si stanno adattando a regioni più vaste. Il legame tra le malattie respiratorie, come influenza e COVID-19, e il riscaldamento del pianeta è meno chiaro, ma alcuni temono che il cambiamento del clima possa alterare il rapporto tra le difese del nostro corpo e questi patogeni.

Fra le cose che cambieranno potrebbe esserci l’adattamento dei microrganismi a un mondo più caldo, l’alterazione delle interazioni di virus e batteri con i loro ospiti animali e l’indebolimento delle risposte immunitarie umane.

Il sistema immunitario è la nostra difesa naturale dagli agenti che ci possono danneggiare. Quando un agente patogeno respiratorio – come il nuovo virus SARS-CoV-2, che causa COVID-19 – entra nel corpo attraverso le vie aeree, danneggia alcune cellule, impadronendosi dei loro meccanismi molecolari e facendo nuove copie di se stesso. Le cellule così colpite emettono proteine di segnalazione, dette citochine, che trasmettono un messaggio d’allarme ad altre parti del corpo, attivando una risposta immunitaria contro l’invasore.

Se la febbre non protegge più
Nei mammiferi si è evoluta anche un’altra difesa, più basilare, contro i patogeni: una temperatura corporea più alta rispetto a quella del loro ambiente. Il risultato di questo cambiamento è che molti microbi, adattati a temperature più basse, sono incapaci di sopportare il calore corporeo dei mammiferi.

“Molti organismi presenti nell’ambiente non possono sopravvivere a 37 °C”, la temperatura standard del corpo umano normale, dice Arturo Casadevall, docente di microbiologia molecolare e immunologia alla Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health. “E dunque la nostra temperatura corporea è una sorta di barriera termica che ci protegge da molti organismi.”

L’innalzamento delle temperature previsto in seguito al cambiamento climatico potrebbe però favorire i patogeni, che saranno più difficili da combattere per il corpo umano.

Microfotografia di Candida auris (© Science Photo Library/AGF)

In un lavoro pubblicato nel 2019 su “mBio”, Casadevall e colleghi hanno descritto un fungo resistente ai farmaci, Candida auris, che è stato isolato per la prima volta da un essere umano nel 2009 e che nell’ultimo decennio si è ripresentato in tre continenti. Il denominatore comune dei focolai in cui si è manifestato è l’alta temperatura, dicono i ricercatori, osservando che potrebbe trattarsi del primo esempio di fungo che si adatta a una temperatura più alta e infrange la barriera termica degli esseri umani.

Ma un fungo, che per replicarsi non ha bisogno di un ospite, è ben diverso da un virus come SARS-CoV-2, che si ritiene sia passato dai pipistrelli agli esseri umani – entrambi ospiti a sangue caldo – forse attraverso un altro animale intermedio. Se gli animali a sangue freddo cominciano ad adattarsi a condizioni più calde, è possibile che sguinzaglino tutta una serie di nuovi agenti patogeni verso i quali gli esseri umani potrebbero non essere immuni.

“Immaginiamo che il mondo diventi più caldo, e le lucertole si adattino a vivere a temperature corporee assai vicine alla nostra. Allora anche i virus delle lucertole si adatterebbero a temperature più alte”, dice Casadevall. “Le nostre difese poggiano su due pilastri: la temperatura e un sistema immunitario altamente avanzato. In un mondo che si riscalda, potremmo perdere il primo pilastro, se [i patogeni]si adattano a temperature vicine alla nostra.”

Il problema potrebbe aggravarsi se le specie si spostano verso zone con climi storicamente meno caldi, o a maggior altitudine, via via che il mondo si riscalda.

In uno studio pubblicato nel 2017 su “Science”, i ricercatori hanno stimato che le specie terrestri si stanno spostando verso i poli alla velocità media di 17 chilometri al decennio, e quelle marine alla velocità media di 72 chilometri al decennio. Un simile rimescolamento delle specie in tutto il pianeta potrebbe voler dire che animali che oggi sono gli unici a ospitare certi microrganismi patogeni si troveranno a vivere fianco a fianco con altri che normalmente non potrebbero ospitarli, dando origine a nuovi percorsi di trasmissione.

Un mondo che si riscalda potrebbe avere effetti anche sull’altro meccanismo di difesa umano, il sistema immunitario: da anni i ricercatori si sono resi conto che può essere indebolito da fattori come stress e mancanza di sonno.

Caldo e risposta immunitaria

L’anno scorso, inoltre, in uno studio pubblicato sui “Proceedings of the National Academy of the Science” alcuni scienziati di Tokyo hanno scoperto che il caldo riduceva la risposta immunitaria dei topi al virus dell’influenza. I ricercatori hanno infettato con il virus dell’influenza di tipo A (uno dei due tipi che causano le epidemie stagionali di influenza nell’uomo) un gruppo di giovani femmine che sotto ogni altro aspetto erano in buona salute. Tre sottogruppi di questi topi sono stati tenuti per sette giorni a una diversa temperatura, rispettivamente 4 °C, 22 °C e 36 °C. Gli autori dello studio hanno trovato che il sistema immunitario dei topi esposti alla temperatura ambiente più alta non combatteva il virus con la stessa efficacia degli altri due gruppi.

In particolare, i ricercatori hanno notato che i topi tenuti alla temperatura più alta mangiavano meno cibo di quelli tenuti alle altre temperature, e perdevano il 10 per cento del peso corporeo nelle prime 24 ore di esposizione all’alta temperatura. “Le persone che si sentono male spesso perdono l’appetito”, osserva in un comunicato stampa Takeshi Ichinohe, professore associato all’Università di Tokyo e coautore dello studio. “Se si smette di mangiare abbastanza a lungo da sviluppare carenze nutrizionali, ciò può indebolire il sistema immunitario e accrescere la probabilità di ammalarsi di nuovo.”

Quando Ichinohe e la sua collega Miyu Moriyama, allora all’Università di Tokyo, hanno aggiunto alla dieta un supplemento di zuccheri o di acidi grassi a catena corta (comunemente prodotti dai batteri intestinali) gli animali sono stati invece in grado di produrre una risposta immunitaria normale.

Ellen E. Foxman, docente di medicina di laboratorio e immunobiologia alla Yale School of Medicine, non coinvolta nello studio, ha espresso cautela circa la possibilità di dedurre un legame diretto tra l’alta temperatura e la risposta immunitaria dei topi. “La temperatura ha avuto un effetto sul comportamento degli animali”, e i topi “non hanno avuto una risposta immunitaria antivirale altrettanto buona contro questo particolare tipo di infezione influenzale”, dice.

Di contro, lo studio pubblicato nel 2015 dalla stessa Foxman nei “Proceedings of the National Academy of the Science” ha mostrato che i primissimi passi della risposta immunitaria contro un virus del raffreddore erano in realtà rafforzati dalle alte temperature e indeboliti da quelle basse.

I ricercatori dell’Università di Tokyo hanno sollevato la questione se la risposta immunitaria più debole osservata nel loro studio sia dovuta a un deficit nutrizionale o al fatto che il sistema immunitario è ostacolato dall’alta temperatura attraverso l’alterazione dell’attività di qualche gene; e dicono che c’è bisogno di ulteriori esperimenti. In ogni caso, è possibile che il cambiamento climatico riesca a disturbare le risposte immunitarie umane, sia direttamente con l’innalzamento delle temperature sia indirettamente attraverso i suoi effetti sulla sicurezza alimentare globale: uno scenario presentato anche in un rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change del 2019.

Secondo Foxman, che riconosce la validità dello studio sui topi di Tokyo, concludere da esso che il riscaldamento dell’ambiente renda gli esseri umani direttamente più suscettibili alle infezioni virali è un salto eccessivo; ma ammette che i cambiamenti del clima potrebbero alterare il numero e le attività degli animali che ospitano i virus, e l’esposizione degli esseri umani a questi animali.

“Io penso che il cambiamento climatico sconvolga un gran numero di andamenti consolidati: che siano relativi al comportamento umano, agli insetti vettori, o persino ai pipistrelli” (dai quali sono probabilmente venuti il virus del COVID-19 e altri letali coronavirus), dice Foxman. E questi sconvolgimenti possono alterare le interazioni tra le malattie e le difese immunitarie umane in modi che gli scienziati devono ancora capire appieno.
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(L’originale di questo articolo è stato pubblicato su “Scientific American” il 29 aprile 2020. Traduzione di Alfredo Tutino, editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)

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