Terremoti e tsunami: quando le faglie scivolano sul fango

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Terremoti e tsunami: quando le faglie scivolano sul fango

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Uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications, dal titolo “Fluid pressurisation and earthquake propagation in the Hikurangi subduction zone”, ha permesso  di comprendere alcuni aspetti originali della genesi dei grandi terremoti e degli tsunami. Lo studio è stato condotto grazie alla collaborazione tra l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, le Università di Pisa, di Padova e la University College of London, su alcuni campioni provenienti dalla zona di subduzione di Hikurangi in Nuova Zelanda. 

Scopo dello studio

I grandi margini di placca in subduzione ospitano due dei fenomeni naturali più pericolosi e più importanti in geofisica: i grandi terremoti e gli tsunami. Inoltre, lungo questi margini si registrano numerosi eventi, simili ai terremoti nel principio ma diversi nel modo in cui rilasciano l’energia accumulata nei secoli sotto forma di onde elastiche. Questi motivi fanno sì che i grandi margini di subduzione abbiano attratto l’interesse della comunità scientifica (Figura 1).

Figura 1. Un margine di placca in subduzione può generare eventi devastanti, dai terremoti di grande magnitudo agli tsunami. Tuttavia queste zone ospitano anche una pletora di eventi di deformazione che non rispondono alle caratteristiche tipiche del terremoto. Ad esempio alcuni eventi producono onde elastiche in una banda di frequenza molto bassa (Very Low Frequency: VLF) oppure in una banda che ricorda un tremore continuo (Deep Episodic Tremor and Slip: ETS e tremori), altri eventi si comportano come terremoti che rilasciano energia molto lentamente e sono chiamati slow slip events (SSE). L’esempio in figura è relativo alla zona di subduzione del Nankai in Giappone che ha recentemente ospitato il terremoto di Tohoku-oki (Mw 9) nel 2011, da Obara e Kato, 2016.

Il problema dello studio di questi margini di placca, problema comune a tutti i terremoti, è che la sismologia è una disciplina relativamente recente rispetto alla scala temporale con cui si ripete un ciclo sismico (da alcune decine a diverse centinaia di anni) e che i dati a nostra disposizione non sono sempre sufficienti a darci la risoluzione spaziale e temporale sul terremoto o sugli altri eventi, quelli che ad esempio generano onde elastiche in una frequenza diversa da quella a cui è tipicamente sensibile un sismometro. Inoltre la sorgente di tutti questi fenomeni è a profondità che vanno dai 5-10 km della crosta superficiale ai 600 km del mantello superiore. Pertanto studiare i meccanismi che inducono questa grande varietà di eventi è complicato dal momento che la sorgente non è direttamente accessibile e molto spesso non ci è possibile determinare il tipo di rocce e minerali coinvolti nel processo

Per fare fronte a queste limitazioni da circa 50 anni si è utilizzato, accanto alla sismologia, un approccio sperimentale che studia la meccanica del terremoto, si interroga sul concetto di stabilità di una faglia e sui meccanismi che generano i terremoti. Il principio è simile a quello introdotto da Leonardo Da Vinci nel ‘400: il moto di un corpo che scivola su un piano inclinato è regolato dall’attrito. L’attrito regola anche il moto relativo delle rocce di faglia che scivolano con una velocità di deformazione all’interno di un campo di forze nella profondità della litosfera. Per studiare cosa genera il terremoto e in quali condizioni il terremoto si enuclea, come la frattura si propaga, diventa eventualmente grande e poi si arresta, da oltre dieci anni all’INGV nel laboratorio HPHT di alta pressione e alta temperatura, utilizziamo macchine sperimentali ad alto contenuto tecnologico per deformare le rocce  a pressioni di centinaia di atmosfere, velocità di scorrimento di metri al secondo, scivolamento dei blocchi ai lati della faglia anche di decine di metri, ovvero le condizioni prossime a quelle del terremoto (Figura 2).

Figura 2. Per studiare il terremoto in condizioni controllate e con un accesso diretto alla sorgente del fenomeno utilizziamo un approccio sperimentale utilizzando macchine ad alto contenuto tecnologico. Sulla sinistra proponiamo lo schema dell’approccio sperimentale: una faglia naturale complessa, ricostruita da inversione di dati geologici e geofisici (in figura la faglia del terremoto di Amatrice), è composta di due lembi di roccia in contatto frizionale posti in un campo di forze qui costituito da una forza normale “σn” alla superficie di faglia (linea rossa) e una forza di taglio “𝜏”. Questo contatto di attrito viene simulato in laboratorio utilizzando il più potente simulatore di terremoti installato al mondo: SHIVA (Slow to HIgh Velocity Apparatus, Di Toro et al., 2010) che si trova a Roma nel laboratorio HPHT dell’INGV.

Il vantaggio di questa simulazione (vedi video sotto) è che avviene in condizioni controllate, in un contesto in cui ci è possibile posizionare strumenti di misura e quindi monitorare la faglia sperimentale con tutti i mezzi resi disponibili dal continuo progresso tecnologico. Inoltre in laboratorio è possibile ripetere l’esperimento numerose volte e generare un set di dati statisticamente consistente per formulare e testare delle ipotesi.

Figura 3. Un esempio di un terremoto “congelato” nella roccia (da Di Toro et al,. 2006). Si tratta di una pseudotachilite, un fuso di roccia prodotto durante il terremoto a causa del violento aumento della temperatura che si produce durante lo scivolamento relativo dei lembi della faglia per attrito alle condizioni di pressione e velocità tipiche del terremoto. Questi stessi fusi di roccia vengono riprodotti in laboratorio con macchine ad alta velocità come SHIVA. Studiare la composizione di questo fuso prodotto in laboratorio rende possibile la ricostruzione dei meccanismi avvenuti sulle faglie antiche oggi affioranti in superficie a causa dell’ esumazione tettonica. La roccia di questo esempio è una tonalite dell’Adamello, Italia.

L’approccio sperimentale è continuamente sottoposto a un processo di validazione. Infatti il laboratorio può fornire delle utili leggi matematiche che descrivono un processo su una scala spaziale piccola (fino a qualche centimetro) mentre i terremoti si generano su strutture che possono estendersi per centinaia di km. Dunque per testare la rappresentatività del dato sperimentale si rende necessario uno sforzo di validazione che si basa sul confronto con il dato geologico che deriva dallo studio delle rocce di faglia naturali (come ad esempio le cicatrici dei terremoti, fusi solidificati generati per attrito in una faglia durante un terremoto e chiamate pseudotachiliti,  Figura 3) e con il dato sismologico che deriva dallo studio delle informazioni contenute nelle onde elastiche liberate durante i terremoti (Figura 4). Recentemente l’approccio sperimentale si è arricchito di una nuova opportunità che ci deriva dalla perforazione profonda delle zone di subduzione, la quale permette di riportare in superficie e testare in laboratorio campioni di roccia prelevati direttamente dalle zone di faglia attive (https://www.icdp-online.org/home/, http://iodp.org/). 

Figura 4. Un parametro fondamentale in fisica è l’energia. L’energia di un terremoto può essere misurata  in natura da strumenti come i sismometri ma anche da strumenti disponibili in laboratorio. In questa figura si evidenzia come l’energia di frattura spesa per dislocare i due lembi della faglia (G) aumenta con la dislocazione (slip o spostamento relativo dei lembi di faglia) e che eventi di dimensioni molto diverse (terremoti di laboratorio, hve=cm, terremoti crostali, aml,ma,mn == decine di chilometri, terremoti di subduzione e terremoti forti, rle, arle, lmb= centinaia di chilometri) si sovrappongono anche alle simulazioni numeriche (tcss). Da Nielsen et ali. 2016). Questo tipo di relazioni sperimentali consente di “scalare” le osservazioni sperimentali dal laboratorio (dove i provini hanno dimensioni di cm) alla natura (dove le faglie hanno lunghezze fino a centinaia di km). Per questo motivo il grafico è costruito con scala logaritmica sia nell’asse delle ascisse (spostamento), sia in quello delle ordinate (energia).

Ad esempio, successivamente al grande terremoto di Tohoku-oki 2011 (Mw 9, si veda un recente lavoro di sintesi a 10 anni dal terremoto Uchida, N., & Bürgmann, R., 2021) che generò uno tsunami devastante (altezza onde > 10 m), venne avviata la prima campagna di perforazione oceanica profonda nel margine di subduzione al largo del Giappone (progetto JFAST). La spedizione, oltre a fornire un certo numero di dati sullo stato di sforzo della crosta terrestre e delle temperature minime raggiunte in quel particolare terremoto (vedi Brodsky et al.,  2020), portò in superficie i campioni del primo chilometro di sedimenti oceanici sotto una colonna d’acqua di 6910 metri (http://www.jamstec.go.jp/e/about/press_release/20120309/). I grandi terremoti che si generano in profondità, consentendo il movimento relativo e improvviso delle placche, sollevano proprio quei primi chilometri sottostanti il fondale marino energizzando la colonna d’acqua sovrastante e producendo devastanti tsunami. In quei primi chilometri però si era sempre ritenuto che i sedimenti composti principalmente di argille impregnate di acqua dovessero arrestare la deformazione sismica impedendo che il terremoto potesse arrivare a deformare il fondale oceanico, ma il grande terremoto di Tohoku fu proprio la dimostrazione che in alcuni casi non è così.

La possibilità di studiare questi sedimenti… L’ARTICOLO CONTINUA QUI

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