197 ambientalisti assassinati nel mondo nel 2017: un vero e proprio massacro!
Il Paese più pericoloso per i difensori della terra sono la Filippine, il continente l’America Latina
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Global Witness e The Guardian hanno pubblicato il nuovo rapporto “The defenders – 197 environmental defenders have been killed in 2017 while protecting their community’s land or natural resources” che rivela che nel 2017 nel mondo sono stati assassinati 197 ambientalisti che stavano lottando contro governi e imprese che rubano le terre e danneggiano l’ambiente dove vivono comunità indigene e locali e che hanno denunciato le pratiche corruttive e illegali che lo permettono. Nel 2002 gli omicidi di ambientalisti erano 4 volte di meno.

Global Witness sottolinea che «Questi attivisti sono sulla linea del fronte di un campo di battaglia globale. Dalla lotta spietata per la ricchezza naturale in Amazzonia, fino ai guardiaparco che proteggono le riserve naturali della Repubblica democratica del Congo, i volti dei/delle difensori dell’ambiente attraversano continenti, Paesi e regioni. Eppure, le minacce che affrontano sono le stesse». Ben Leather, senior campaigner per Global Witness. ha detto a The Guardian: «La situazione rimane critica. Fino a quando e comunità non saranno davvero coinvolte nelle decisioni sull’uso della loro terra e delle risorse naturali, coloro che parleranno continueranno a subire vessazioni, incarcerazioni e minacce di omicidio».
Il nuovo rapporto presenta tendenze ormai tristemente familiari: nel 2017 il continente più pericoloso per gli ambientalisti e i difensori della terra è stato ancora una volta l’America Latina, il Paese più pericoloso per il Defenders si sono confermate le Filippine con 41 morti.
Nelle Filippine la causa dell’aumento degli assassinii degli ambientalisti ha un nome e cognome: quello del presidente della Repubblica, il fascista Rodrigo Duterte, Il rapporto racconta la storia degli 8 difensori della terra e dei diritti umani massacrati dai soldati di Duterte il 3 dicembre a Limad, sulle sponde del lago Sebu, strage che il governo attribuì subito a uno scontro a fuoco con i ribelli, ma i compagni degli attivisti dicono chde in realtà sono stati uccisi per essersi opposti a una miniera di carbone e una piantagione di caffè che si vorrebbero realizzare sulla loro terra ancestrale.

I conflitti minerari hanno causato 36 omicidi, molti dei quali legati alla crescente domanda globale di materiali da costruzione. In India nel maggio 2017 sono stati assassinati tre membri della famiglia Yadav: Niranjan, Uday e Vimlesh, che stavano cercando di impedire l’estrazione di sabbia dal fiume che attraversa il loro villaggio di Jatpura. In Turchia sono stati abbattuti a colpi di arma da fuoco nella loro casa due pensionati, Ali e Aysin Büyüknohutçu, che avevano vinto una battaglia legale per far chiudere una cava di marmo che forniva blocchi per hotel di lusso e monumenti.
Le miniere hanno trasformato le Ande in una “zona di guerra” con conflitti violenti come quelli tra gruppi indigeni e i proprietari della miniera di rame di Las Bambas in Perù e della miniera di carbone di El Cerrejón in Colombia.
Nel rapporto 2017 c’è una novità: ormai l’agro-industria ha superato l’industria mineraria come attività più pericolosa per la vita degli ambientalisti e insieme queste due industri rappresentano il 60% degli omicidi conosciuti degli attivisti. L’agro-business è diventato il principale fattore di violenza a causa dell’aumento della domanda di soia, olio di palma, canna da zucchero e carne proveniente da supermercati occidentali e cinesi che ha fornito un incentivo finanziario per installare piantagioni e allevamenti e scacciare dalle loro terre ancestrali i popoli autoctoni e ad appropriarsi di altre terre comunali.
In Brasile, dopo il golpe istituzionale che ha deposto la presidente Dilma Rousseff, con il nuovo governo di destra è ripartito l’assalto all’amazzonia e alle terre indigene – con 46 uccisioni – confermando il Brasile come il Paese più letale per i difensori della terra. Ma nei più piccoli Paesi amazzonici confinanti e nel resto dell’America Latina, fatte le proporzioni di territorio e popolazione, le cose vanno ancora peggio.

 
								
				 
				
								
										
			 
	
											