Scoperto in Canada un frammento di crosta terrestre che risale a 4,16 miliardi di anni fa

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Scoperto in Canada un frammento di crosta terrestre che risale a 4,16 miliardi di anni fa

Una formazione rocciosa sulla baia di Hudson potrebbe essersi formata quando il nostro pianeta aveva appena 350 milioni di anni di età. Sarebbe dunque il lembo più antico conosciuto di crosta terrestre
Massimo Sandal
www.lescienze.it

Illustrazione della Terra dei primordi, subito dopo la sua formazione rispetto ai tempi geologici (MARK GARLICK/SCIENCE PHOTO LIBRARY / AGF) ()

Una fascia di rocce scure lambite dal mare sulla baia di Hudson, in Canada, potrebbe essere il brandello più antico conosciuto di crosta terrestre. I dati riportati da Jonathan O’Neil dell’Università di Ottawa e colleghi su “Science” attestano l’esistenza di una formazione geologica che risale ad almeno 4,16 miliardi di anni fa, quando il nostro pianeta aveva appena 350 milioni di anni. 

Ben poco è rimasto della crosta terrestre più antica: il nostro pianeta in continuo subbuglio ha fuso, trasformato e reso irriconoscibili quasi tutte le rocce risalenti alle ere più remote. Quelle più antiche datate con certezza, gli gneiss di Acasta, sempre in Canada, si sono formati 4,02 miliardi di anni fa e definiscono la base dell’Archeano, il secondo eone in cui è divisa la storia del pianeta. Sappiamo che la Terra però nacque ben prima: i resti della nebulosa che diede origine al sistema solare, incastonati nelle meteoriti, risalgono a 4,56 miliardi di anni fa.

Questi “secoli bui”, i primi 500 milioni di anni della Terra, vengono definiti come l’eone Adeano. Un campione di quel periodo permetterebbe di comprendere moltissimo sulla formazione del nostro pianeta. Non ne resta, però, praticamente nulla. Unica eccezione, una manciata di minuscoli cristalli di zircone, ritrovati in Australia e risalenti a 4,4 miliardi di anni fa, preservati all’interno di rocce più recenti.  

Intorno al 2007 però la cosiddetta fascia di rocce verdi di Nuvvuagittuq, una formazione rocciosa di pochi chilometri quadrati, attirò l’attenzione degli scienziati, quando le analisi rivelarono che dovevano avere come minimo 3,75 miliardi di anni. Un anno dopo, O’Neil e colleghi scatenarono un dibattito quando proposero un’età di 4,3 miliardi di anni. Ma, seguendo l’adagio per cui affermazioni eccezionali richiedono prove eccezionali, la datazione venne subito contestata: non si potevano escludere infatti spiegazioni alternative dei dati.

Per sciogliere i dubbi, i ricercatori hanno analizzato delle intrusioni, ovvero lava che si è insinuata e solidificata nelle fessure tra le altre rocce. Come “calendario”, i geologi hanno sfruttato il decadimento di isotopi radioattivi del samario, incorporati in tracce nella roccia al momento della sua formazione, che si convertono lentamente in un altro elemento, il neodimio. La forza dello studio sta nell’aver utilizzato due “calendari” diversi e indipendenti, basati su isotopi diversi di samario e neodimio: uno che “funziona” ancora oggi e un altro che si è fermato 4 miliardi di anni fa perché a quel punto l’isotopo responsabile è decaduto del tutto. 

Come spiega Alberto Zanetti, dirigente di ricerca all’Istituto di geoscienze e georisorse del Consiglio nazionale delle ricerche di Pavia, il vantaggio di usare l’intrusione sta nel fatto che, a differenza delle rocce circostanti, deriva da un singolo magma fuso che si è solidificato e cristallizzato in un momento preciso. È quindi possibile discernere con precisione, per entrambi i calendari, l’effetto dei processi di cristallizzazione nell’alterare il rapporto tra samario e neodimio, e quelli dovuti al decadimento radioattivo; la correlazione tra i due fenomeni permettere di leggere con precisione l’età della roccia.

Anche se alcuni ricercatori invitano ancora alla cautela, entrambi i metodi indicano con buona approssimazione la stessa età: circa 4,16 miliardi di anni. Le rocce in cui il magma è penetrato pertanto devono risalire come minimo circa allo stesso periodo, e probabilmente sono ancora più antiche. 

Jonathan O’Neil, professore associato del Dipartimento di Scienze della Terra e dell’Ambiente dell’Università di Ottawa, con uno dei campioni studiati (©Università di Ottawa)

“Le rocce analizzate raccontano di un contesto geologico di cui non abbiamo ancora informazioni. Sarebbe sbagliato pensare che quelle informazioni possano rappresentare lo status dell’intero pianeta 4,2 miliardi di anni fa, però contribuisce a delineare meglio quelle che finora erano puramente ipotesi”, dichiara a Davide Persico, docente in paleontologia e paleoecologia all’Università di Parma. “Con la conferma di datazione si cominciano a raccogliere prove di oceani e continenti scomparsi; con le valutazioni mineralogiche e geochimiche si possono trarre deduzioni sulla loro composizione iniziale e anche sulla paleogeografia. Finora, la Commissione stratigrafica internazionale ha sempre considerato informalmente l’Adeano. Ora il ritrovamento di reperti geologici e stratigrafici può contribuire a una sua formalizzazione.”

Ma com’è possibile che su un pianeta attivo come la Terra, e a maggior ragione una Terra così giovane e turbolenta, sia sopravvissuto un frammento così antico? Lo spiega Alberto Brovarone, geologo e professore al Dipartimento di Scienze biologiche, geologiche e ambientali dell’Università di Bologna. “Le zone in cui sono stati ritrovate queste rocce si chiamano tecnicamente cratoni: grandi placche di terreni antichi poco rimaneggiati. Quando le placche iniziano a separarsi per far nascere un oceano o viceversa poi l’oceano si richiude e i continenti si scontrano per far nascere una catena montuosa, questo accade lungo fasce deboli della crosta terrestre. I domini più robusti, delimitati dalle zone più fragili, possono restare invece relativamente intatti.”

Secondo Alberto Zanetti, proprio le alte temperature del mantello della Terra giovane potrebbero aver formato alcune aree di crosta molto spessa e molto leggera, e che quindi non sarebbe potuta sprofondare facilmente di nuovo nel mantello terrestre, un po’ come una zattera di balsa che resta a galla anche durante una tempesta. 

La portata scientifica della scoperta è difficile da sottovalutare.

“Per tantissimo tempo ci siamo affidati ai cristalli di zircone, piccoli minerali isolati. Dalla chimica degli elementi presenti in tracce in quei piccoli minerali sono state fatte valutazioni sulla composizione dell’atmosfera primordiale della Terra, per esempio”, aggiunge Bovarone. “Avere a disposizione rocce vere e proprie apre a tantissime altre possibilità. I zirconi dell’Australia inoltre implicano continenti di un certo tipo, che nel sistema solare ci sono solo sulla Terra. Le rocce in Canada sono potenzialmente più primitive e potrebbero testimoniare una fase ancora non particolarmente evoluta. Studiarle potrebbe consentirci di capire quando e come la Terra ha preso una direzione diversa rispetto a quella di altri pianeti.»

All’epoca infatti la tettonica a zolle, unica del nostro pianeta, non esisteva ancora: le rocce canadesi potrebbero invece testimoniare le prime fasi della maturazione del nostro pianeta.

“Gli autori dello studio affermano che la composizione di questi magmi era ancora molto vicina all’ingrediente fondamentale del nostro pianeta, le condriti”, ovvero le meteoriti non metalliche costituite dal materiale originale della nebulosa solare, che aggregandosi hanno formato i pianeti, osserva Zanetti. “Questo dato indica che dopo 350 milioni di anni la differenziazione del mantello terrestre era ancora in corso. Rispetto all’inizio della tettonica a zolle, che comincia almeno 500 milioni di anni dopo se non oltre, siamo molto più vicini alla collisione con Theia e la formazione della Luna, 4,4-4,5 miliardi di anni fa. In quel periodo dunque vediamo la Terra che si riassesta e che comincia ad avere una sua dinamica.”

Paradossalmente però, proprio l’eccezionalità scientifica del sito canadese rischia ora di precludere ulteriori studi agli scienziati. Negli ultimi anni sia altri gruppi di ricerca sia collezionisti hanno prelevato (e, talvolta, rivenduto a caro prezzo) numerosi campioni da Nuvvuagittuq in modo sconsiderato, sfregiando il paesaggio.

Nei mesi scorsi la Pituvik Landholding Corporation di Inukjuak, che rappresenta la comunità Inuit custode di queste terre, ha dunque chiuso l’accesso al sito per prevenire ulteriori danni. “È un peccato, ma al loro posto farei la stessa cosa”, ha concluso O’Neil.

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