I comportamenti auto-distruttivi e le possibili vie d’uscita

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I comportamenti auto-distruttivi e le possibili vie d’uscita

A volte non riusciamo a capire certi nostri comportamenti, soprattutto, una certa categoria di azioni che possiamo chiamare “auto-sabotanti”, autodistruttive, che vanno in direzione contraria al volerci bene, al fare qualcosa di buono per noi stessi, al prenderci cura di noi stessi.
di Lino Fusco
www.fisicaquantistica.it

Quasi che una parte di noi rifiutasse di prendersi cura di noi. Magari sappiamo cosa ci farebbe stare bene, sappiamo cosa dobbiamo fare: ad esempio, fare quella telefonata a quella persona, andare a correre, cucinare sano, parlare chiaro con qualcuno, occuparsi della casa, ecc. eppure finiamo sempre per fare qualcosa di diverso da quello che noi stessi riteniamo la cosa giusta.

Evidentemente, dobbiamo ipotizzare la presenza dentro di noi di un’altra parte che “ci vuole male”, che non vuole prendersi cura di noi, che ci danneggia attraverso pensieri, più o meno consapevoli, del tipo “lascia perdere”, “tanto a che serve?!”, “sarà il solito fallimento”, “anche questa volta non riuscirai”, “non sei all’altezza”, “che provi a fare?”, “è tutto inutile”, “non hai diritto a prenderti cura di te” e chissà quanti altri pensieri auto-sabotanti simili, che frenano da dentro la possibilità di volerci bene…

In questi casi, un primo livello di intervento per migliorare la situazione, ovvero per aiutare la persona a sviluppare pensieri e azioni nella direzione del benessere, è quello di renderla consapevole di questo “dialogo interiore” tra le varie parti, quelle che fanno il tifo per il sé (“impegnati e prenditi cura di te”) e le parti avversarie, belligeranti, ma sempre parti interne, che boicottano, che remano contro, che tengono la persona al palo, che la vogliono far essere, pensare e agire come ha sempre fatto, ottenendo i risultati che ha sempre ottenuto, ovvero sofferenza emotiva, bassa autostima, problemi di relazione, ecc… I soliti problemi che si porta appresso da tempo immemore.

A volte questo tipo di intervento sullo “scontro tra parti di sé”, può essere sufficiente per aiutare la persona a rendersi conto di quale teatro conflittuale interiore sia attivo, darle la giusta scossa per dar retta alle parti di sé “positive” e cominciare ad agire di conseguenza…

In altri casi, invece, questo non basta. Magari cominciamo ad agire, dando retta alle parti supportive che ci vogliono far stare bene e agire per migliorare la qualità della nostra vita… ma prima o poi finiamo per abbandonare l’impresa, smettiamo di fare qualcosa di buono per noi stessi e ricaschiamo nelle vecchie abitudini disfunzionali di pensiero e azione, finendo per provare le solite emozioni dolorose e per vivere relazioni e contesti di vita pieni di malessere, frustrazione, delusione, rabbia, tristezza, angoscia, senso di colpa, vergogna ecc…

Ognuno di noi, probabilmente, può trovare nella propria storia di vita, attuale e passata, esempi di questo tipo di scenario e comportamento… che si concludono sempre allo stesso modo. In questi casi, probabilmente, dobbiamo scendere un po’ più in profondità a rintracciare quale altra dinamica interiore sia responsabile di tale comportamenti di auto-sabotaggio.

Dobbiamo scendere a livello delle “credenze patogene inconsce” (che possiamo e dobbiamo rendere consapevoli), che guidano dal profondo il nostro pensare e il nostro agire. Ad esempio: “se mi prendo cura di me, gli altri non mi vorranno più bene…”, “se mi prendo cura di me gli altri ne soffriranno…”, “se mi prendo cura di me non posso prendermi cura degli altri…”, “se mi prendo cura di me sono cattivo, egoista e verrò punito”, “se mi prendo cura di me resterò solo”, ecc..

Anche se consapevole del suddetto andirivieni di modalità disfunzionali di azione, ovvero il finire sempre per fare quello che ci fa stare male… queste credenze, di origine infantile, non sono chiaramente accessibili ad un primo sguardo e solitamente emergono dopo che la persona ha già fatto un lavoro su di sé.

Inoltre, queste credenze spesso sono sclerotizzate da anni e hanno favorito l’organizzazione della persona e del sistema di relazioni di cui fa parte (famiglia in primis), intorno ad un funzionamento che è duro a cambiare. La famiglia, ormai, si è assestata su un insieme di “ruoli” che nel tempo hanno creato il loro equilibrio, di solito disfunzionale, in cui ognuno, in maniera pressoché inconsapevole, recita una parte di un copione che tiene tutti impantanati, incastrati, nella rigidità di dover comportarsi sempre allo stesso modo.


E spesso, la persona che arriva dallo psicologo, porta con sé, in terapia, l’intero sistema, ovvero esprime individualmente il disagio e la sofferenza che in forme e gradi diversi appartengono a tutti i membri della famiglia. La persona che arriva in terapia è stata, “inconsciamente”, eletta paziente dall’intera famiglia, investita del ruolo e della funzione di esprimere la malattia del sistema familiare nel suo complesso. Un capro espiatorio, un parafulmine, che si fa carico di dolori e rabbie, rancori e risentimenti, angosce e sensi di colpa che non appartengono solo a lui, ma che lui è stato “designato” a portare come una croce…

L’accesso a questo tipo di consapevolezza, può essere particolarmente illuminante per le persone che, letteralmente, in questi momenti della terapia “iniziano a lacrimare dal profondo”, anche a “singhiozzare” o si aprono ad un “sorriso amaro” o ad un “sospiro di sollievo”. Hanno cioè individuato un potente fattore che, evidentemente insieme ad altri, “dal basso”, guida le azioni quotidiane e il modo di creare e vivere le relazioni, non solo a casa, ma anche al lavoro e in altre relazioni e contesti affettivi. La persona è “illuminata” da questa consapevolezza, da queste credenze in precedenza inconsapevoli, e che ora sembrano così evidenti e chiare alla sua attenzione. “Illuminata” anche rispetto al da farsi da qui in avanti.

Probabilmente il sistema opporrà resistenza al cambiamento, di certo non saranno gli altri a cambiare, sicuramente è la persona che è chiamata a fare qualcosa di diverso… per spostare gli equilibri. La persona deve, quindi, iniziare ad elaborare in modo diverso le credenze individuate. Ad esempio, se la credenza “patologica” è: “se mi devo prendere cura di te, non posso prendermi cura di me” o similmente “se mi voglio prendere cura di te, devo smettere di pensare prima di tutto a me”, la persona potrebbe rivedere questa equazione soggettiva, in modo più sano o perlomeno utile, ad esempio, in “è proprio prendendomi cura di me, che potrò meglio prendermi cura di te”.

Inoltre, la persona potrebbe sviluppare alcuni dubbi che la potrebbero portare, in seguito, ad una seconda “illuminazione”, ovvero a mettere in dubbio la prima parte della credenza: “devo, per forza, prendermi cura di te?”, “voglio prendermi cura di te?”, “solo io, devo o voglio, prendermi cura di te?”… Queste elaborazioni, in genere, aprono lo sguardo della persona verso un orizzonte comportamentale concreto diverso, cominciano ad emergere in lei chiaramente nuove possibilità concrete di agire, nuove azioni che la persona può intraprendere per cambiare le cose, per attivare un cambiamento, con cui gli altri membri del sistema dovranno necessariamente confrontarsi. Ad esempio, l’individuo potrebbe cominciare a comunicare in modo più assertivo e chiaro, potrebbe cominciare a chiedere quello che non ha mai chiesto, o anche a dire di “no” laddove ha detto sempre “sì”, potrebbe cominciare a fare qualcosa per sé di diverso dal solito. Imparando “ovviamente” a prendersi il rischio di deludere gli altri (che per tanto tempo ha fatto contenti…).

Quasi sempre il cambiamento non avviene dalla mattina alla sera, né basta una seduta, anche se alcune possono essere veramente “spartiacque”. La persona, comunque, ad un certo punto comincia ad intravedere delle possibilità nuove realisticamente praticabili, possibilità che evidentemente la devono vedere in prima persona assumersi la responsabilità di nuove azioni per cambiare ciò che la fa soffrire.

Da qui inizia quel processo di “sperimentazione” per prove ed errori, attraverso cui la persona “si dà il permesso” di fare qualcosa di nuovo e verifica cosa succede dentro di sé (quanto riesce a superare paure, ad agire nonostante la paura e a sostenere l’ansia del cambiamento) e fuori di sé, come reagiscono gli altri, quanto resistono al cambiamento, quali ostacoli frappongono tra il “vecchio patologico ma sicuro” e il “nuovo possibile, potenzialmente fonte di benessere, ma tutto da conoscere…”.

La psicoterapia funziona per aggiunta e non per sostituzione. Per integrazione di nuove possibilità e non per eliminazione di vecchie modalità. I pensieri auto-sabotanti interni e le persone esterne che remano contro, continueranno ad esserci ancora a lungo, forse per sempre. Ciò che cambia è la capacità della persona di farsi guidare dai suoi nuovi modi di pensare e agire, in direzione di ciò che veramente ha individuato come buono per sé: la strada della propria rinascita e felicità.

Articolo di Lino Fusco – psicologo, psicoterapeuta

Fonte: https://linofusco.wordpress.com/2018/01/29/i-comportamenti-autosabotanti/

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